lunedì 12 marzo 2018

Cornelio Fabro. Evangelizzazione: peccato e conversione

Il messaggio della salvezza, e perciò della speranza e della gioia, è portato agli uomini sulla terra dagli Angeli: un Angelo appare a Zaccaria per annunziare il concepimento di Giovanni, l’Angelo annunzia alla Beata Vergine che diverrà Madre del Figlio dell’Altissimo e Salvatore del mondo, l’Angelo illumina e conforta Giuseppe… e conforta Gesù nell’agonia dell’Orto.

Gli Angeli vengono dal Cielo, messaggeri della divina Verità e Misericordia, per riaccendere nell’uomo la luce e la speranza di sfuggire alle spire della disperazione che sale dalla palude del mondo: dalle allucinazioni delle sue vane filosofie, dalle illusioni delle scienze umane fisiche o antropologiche che siano, dai tormenti manifesti e subdoli delle passioni, dalle remore e viltà – e pare alle volte che (per paradosso) siano proprio queste l’ostacolo principale all’efficacia della divina grazia nelle anime – che tiene e trattiene sul posto dallo slanciarsi quanti hanno pur promesso di seguire Cristo e militare sotto lo stendardo della Croce. Ed ecco gli Angeli, messaggeri del mondo a venire e di una vita eterna senza morte e dolore, hanno aperto all’uomo la finestra dalla quale irrompe all’anima il raggio che vince ogni tenebra. Ed il primo passo della fede è la consapevolezza cioè l’accettazione di questa verità che trascende ogni senso e ragione e che insieme dà senso, nella luce della fede, ad ogni cosa e illumina ogni ragione. L’Angelo perciò non è un essere a noi estraneo: l’Angelo buono è il confidente di Dio che diventa l’amico dell’uomo, il garante della divina misericordia, una luce continua e una certezza che Dio non ha abbandonato l’uomo. La storia universale in grande – ieri come oggi – e la storia particolare di ciascuno in piccolo – anch’essa ieri come oggi – non sono che prove laceranti che l’uomo non può salvare l’uomo.
Noi cristiani, per nostra fortuna, abbiamo il Vangelo e la vita dei santi, le parole di Cristo e l’esempio di amore e di sangue di tanti suoi veri servi e seguaci, ad illuminarci. Ma questa luce sembra oggi offuscarsi per tante aspirazioni ed istanze mondane che stanno agli antipodi della penitenza che Cristo chiede ai suoi discepoli: «Se non farete penitenza, perirete tutti allo stesso modo» (Lc. 13, 3). Il progetto «uomo», fin quando è lasciato nelle mani dell’uomo, non riesce ad avere alcun senso: si spappola negli stordimenti infiniti delle passioni pubbliche e private, si dilegua nel fumo delle vanità e nella disperazione delle generazioni travolte nei vortici delle ideologie e delle contese per l’egemonia della verità e della libertà.
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Questa attrazione per l’errore e per la falsità, per le opinioni strampalate e le soddisfazioni illecite, è il peccato: essa costituisce insieme la radice e il frutto del peccato. Lo ha annunciato l’Angelo ed il Vangelo non ha senso, si risolve in una fiaba, senza lo sfondo oscuro del peccato: come ha fatto il pensiero moderno che ha ridotto il peccato alla semplice privazione o negazione che è propria della coscienza finita (Kant), sottraendolo alla lotta fra la verità e libertà che Dio ha proposto come prova all’uomo. L’Angelo invece annunzia a Zaccaria che Giovanni «sarà ripieno di Spirito Santo e convertirà molti d’Israele al Signore loro Dio… per preparare a Dio un popolo ben disposto» (Lc. 1, 15-17). Cioè il Regno di Dio comincia con la «conversione del cuore» che è un rovesciamento d’orizzonte il quale comporta morte e mortificazione: ma è in questo orizzonte, voluto dalla divina misericordia, che si consumerà il giudizio ultimo della storia e si placherà il fragore delle passioni ed il pianto delle generazioni. Il giudice sarà lo stesso Salvatore di cui l’Angelo assicura Maria che «…sarà chiamato Figlio di Dio» (Lc. 1, 36).
Non a caso allora le prime parole di Cristo nell’annunziare il suo ministero, conservateci da Marco, annunziano la salvezza come «progetto penitenziale» di tutta la persona, nel corpo e nello spirito: «Il tempo è compiuto ed il regno di Dio è vicino, fate penitenza e credete al Vangelo» (Mr. 1, 15). La penitenza è pertanto consustanziale col progetto divino della salvezza od anche, per esprimerci con un impegno più diretto ed esistenziale, la penitenza è la contemporaneità con la verità che salva e che i Santi hanno chiamata e praticata come l’imitazione di Cristo. Ecco la «buona Novella» che qui l’evangelista chiama il Vangelo del Regno di Dio: è un agere contra, come dirà S. Ignazio di Loyola, contro il nemico esterno che è il mondo, contro il nemico interno che siamo noi stessi e per ciascuno il proprio io e contro il nemico interno ed esterno ad un tempo – perché dà man forte ai due precedenti – che è il diavolo, l’avversario di Dio e dell’uomo fin dall’inizio della storia, il principe di questo mondo che sarà sconfitto solo con la fine ed il giudizio della storia.
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Anche se l’espressione può sembrare grezza e paradossale, si può e si deve allora dire che «l’accettazione della realtà del peccato» è la porta d’ingresso nel Regno di Dio ossia nel progetto misericordioso di Dio per la salvezza. C’è misericordia da offrire dove c’è miseria da soccorrere e guarire e la miseria prima, che disvela il dolore di ogni altra miseria, è il peccato. In questo contesto di dolore e di turbamento, che è la condizione primaria per avvertire il bisogno della salvezza, l’accettazione della realtà del peccato diventa la scoperta del dolore e dell’amore: «Nell’amore… godo… nel dolore» – scriveva Gemma Galgani (Lett. 103), straziata dal male che la porterà alla morte. Ed è l’anima innocente della Galgani – come i grandi mistici che vedono nel mondo della santità di Dio l’abisso di male della creatura peccatrice – a descrivere nelle Lettere al padre Germano e nelle Estasi la confusione per i suoi peccati: ha «il cuore ripieno di peccati» (Lett. 7), «i peccati sono tanti ogni minuto» (Lett. 8), ha «il cuore tutto pieno di peccati» ed ha «aggiunto peccati a peccati» (Lett. 15 e 16) fino a chiamarsi «cenere di peccato: lo dica a tutti» (Lett. 112). E nelle Estasi ancora si professa «gran peccatrice» e «carica di peccati» (pp. 8, 18, 22): «tutti i giorni della mia vita io ho sempre peccato» (p. 78), «tutta piena di peccati» (p. 31), ha fatto «…tanti peccati come i palpiti del cuore» (p. 49) e si sgomenta a vedere il «quadro orribile» dell’anima sua (p. 238). E leggiamo insieme la confessione sorprendente: «È quasi una bella sorte per me essere nata peccatrice» (p. 103). Ed a lei come a S. Teresa d’Avila, Iddio mostra il posto che «avrebbe occupato nell’inferno» (Lett. 57) e riconosce che «il posto dei Santi non è per me» (Lett. 21 bis).
Nel diario del lunedì 20 agosto (1900) questo sentimento sembra forzare ogni limite: «Stasera, com’è solito accadermi spesse volte, mi sono venuti alla mente tutti i miei gran peccati, ma con tanta enormità, che ho dovuto farmi forza per non piangere forte: ne sentivo un dolore sì vivo, che mai avevo provato. Il numero di essi oltrepassava la mia età e la mia capacità: però, ciò che mi consola, ne ho provato grandissimo dolore che vorrei che questo dolore mai si cancellasse dalla mia mente e mai mi diminuisse. Dio mio! fino a che è giunta la mia malizia!» (p. 203).
Che significa questo accoramento dei santi sui peccati che, per quanto a noi sembra, non hanno neppure commessi, mentre noi restiamo quasi impassibili dopo averli commessi? È qui, in questa avvertenza del male congenito alla nostra natura, del peccato che sta sempre in agguato sul limitare della coscienza, che consiste il senso cristiano della infinita miseria potenziale e reale della nostra condizione. Qui viene sconfitta ogni psicologia che pretende spiegare la libertà come perfetta antinomia dell’agire nella trasparenza dei motivi che sono in possesso della ragione: una dolorosa e dannosa illusione. La vera libertà è altrove.
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La libertà cristiana è quella che si trascende in Dio nell’implorazione del suo aiuto e della sua grazia: è il «frutto» appunto della conversione del cuore. «Libertà» è nel suo concetto primario la capacità che ha l’uomo di disporre di sé e di darsi quella fisionomia morale che egli prospetta col progetto della propria vita che è la scelta della vocazione. Per il cristiano infatti libertà e verità vanno insieme e si appartengono come il concavo e il convesso e si specchiano l’una nell’altra. Perciò Cristo ha proclamato che «…la verità vi farà liberi» e che «saremo veramente liberi soltanto se il Figlio ci avrà liberati» (Gv. 8, 32 e 36). E per questo l’Apostolo chiama la vocazione del cristiano un appello di libertà: «Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà…» (Gal. 5, 13) – un appello di fierezza e di consolazione, ma anche di responsabilità nelle incertezze di oscure e segrete ambasce che attendono ogni cristiano alla prova. Ed è in questo punto che le anime profonde, quali sono i Santi, «vedono» l’infinita speranza col timore della propria fragilità: la «vedono» cioè la sentono nell’intimo di sé per una speciale illuminazione di Dio, per un tocco interiore della divina grazia che fa trasalire l’anima di fronte alla santità di Dio e la colma di sgomento e di dolore di fronte alla bontà misericordiosa di Dio. Nella Bibbia Dio si presenta all’uomo come Padre amoroso, che si china sulla sua creatura a chiederle fedeltà e amore in spirituale intimo sposalizio. E Gesù, il Verbo fatto carne e immolato sulla Croce per l’uomo, si è «svenato» – come dice s. Caterina – per lavare col suo Sangue il peccato commesso dalla nostra libertà la quale, peccando, perde se stessa e si fa schiava della creatura.
Si badi bene di non abusare dei termini: la libertà non è affatto un mistero, essa è la realtà più ovvia e lampante poiché la libertà si dà nella presenza essenziale che ha l’io a se stesso: questo è il punto di partenza e rimane comunque il punto di partenza, una possibilità sempre aperta di riscatto e di salvezza. Ma la libertà si deve attuare e conservare nella tensione infinita dell’indipendenza originaria e ciò è possibile – questo ci insegna la realtà del male e del peccato dentro e fuori di noi – soltanto in unione con Dio, col «complementum spiritus» datoci da Dio, con l’effusione misteriosa e dolce della sua grazia.
Il peccato è un mistero, mysterium iniquitatis; anche la grazia è un mistero, mysterium amoris; ma non è un mistero la nostra volontà che pecca, ce l’attestano i Santi: «Ciò che mi affliggeva, scrive ancora di sé la “povera Gemma” nell’Autobiografia, era il non poter amare Gesù come avrei voluto; mi davo premura di non offenderlo, ma la mia cattiva inclinazione al male era sì forte che senza una grazia speciale di Dio sarei caduta nell’inferno» (p. 256).
Ecco perché il «senso del peccato» rinsalda nel cristiano i contrafforti della luce, ne attinge lume e conforto nell’arduo cammino dell’esistenza fra le insidie grossolane e sottili dei dubbi e delle passioni.

(1977)

da

http://www.corneliofabro.org/documento.asp?ID=646


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