giovedì 5 luglio 2018

Tre Punti alla Modernità

Riprendo da "la Scure di Elia":

Tre punti alla modernità


La modernità, intesa come rovesciamento dell’ordine naturale (in cui Dio è principio e fine, mentre l’uomo è ordinato a Lui e il cosmo è al suo servizio), è indubbiamente la causa della crisi radicale che attanaglia la civiltà occidentale. L’essere umano, creato per conoscere, amare e servire Dio in questa vita e goderlo eternamente nell’altra, è stato dapprima collocato al centro di un mondo in cui tutto – compresa la religione – è funzionale al suo benessere terreno; poi l’uomo stesso, declassato ad animale più evoluto, ha finito con l’essere a sua volta subordinato alla salvaguardia della natura. L’artefice della propria fortuna è diventato una minaccia per l’ecosistema; la sua proliferazione, di conseguenza, è ora considerata un fenomeno dannoso da combattere e frenare in ogni modo.

Se questo è l’esito, è evidente che la modernità sia un orientamento che vada radicalmente invertito nell’interesse stesso dell’umanità, messo a repentaglio da simili idee. Sarebbe tuttavia quantomeno imprudente respingere in blocco con un giudizio indiscriminato di condanna tutto ciò che si è prodotto dopo il Medioevo, quasi non ci fosse stato più nulla di utile, ma soltanto esiziali errori e deviazioni. Che ci piaccia o no, siamo anche noi figli del nostro tempo, influenzati, malgrado le migliori intenzioni, dal suo spirito individualista, egocentrico e insubordinato, che scorrazza beffardo tanto nell’ambiente progressista che in quello tradizionalista. Cerchiamo allora di cogliere gli elementi positivi della cultura attuale tralasciandone al contempo quelli negativi, da cui dobbiamo progressivamente disintossicarci con la luce dello Spirito Santo e l’aiuto della grazia, ottenuti per mezzo del Cuore immacolato di Maria.

Mi vengono in mente almeno tre aspetti della cultura moderna che, pur senza costituire acquisizioni nuove in assoluto, sono irrinunciabili incrementi della coscienza collettiva. Il primo è una più esatta valutazione della parte del soggetto individuale nella conoscenza, sia in quella basata sulla ragione che in quella fornita dalla fede. Con ciò non intendo certo aprire un varco al soggettivismo, ma riconosco semplicemente che ognuno di noi si accosta alla verità oggettiva (naturale o rivelata) a partire da una storia particolare e con una personalità diversa, cogliendola con sfumature che posson diventare contraddittorie solo se assolutizzate, ma che altrimenti si rivelano preziose sfaccettature che arricchiscono la comprensione della realtà, la quale non è mai esaurita dalla conoscenza umana. La doverosa reazione al relativismo che dilaga purtroppo anche nella Chiesa non deve trasformarci in gladiatori che vibrano colpi di maglio a destra e a manca, privi di ogni sensibilità e delicatezza per quei lucignoli di verità e di bene che il Signore non vuole siano spenti.

Una maggiore attenzione al soggetto mette in evidenza, poi, il necessario ruolo dell’esperienza personale nel processo di conversione e di crescita nella fede. Non si tratta, neanche questa volta, di pagare un tributo al modernismo, che pretende di rintracciare nell’esperienza umana l’origine di ogni religione (compresa quella rivelata, la quale nasce invece da una serie di interventi divini nella storia), bensì di riconoscere che l’irruzione della grazia è ben qualcosa di sperimentabile, sebbene la sua essenza soprannaturale rimanga al di là di qualsiasi effetto sensibile. Nessuno si converte a Cristo a forza di mero studio o di puro ragionamento, ma perché, in qualche modo, sperimenta l’incontro con Lui e ne scopre la presenza nella propria vita. La fede non è frutto di un’adesione asettica a un teorema o a un sillogismo, ma deve avere un significato per l’esistenza. Anche qui una giusta opposizione all’esistenzialismo – almeno a quello che si è rivelato uno scivolo verso l’ateismo – non va spinta fino a relegare l’esperienza quotidiana in un limbo escluso dalla pace e dalla gioia che, già nello stato di viatore, colmano l’anima del vero credente.

E veniamo al terzo punto. L’autenticità della fede richiede un’adesione interiore – non soltanto convinta, ma pure amorosa – alla verità udita nella predicazione, che deve perciò essere tale non solo da illuminare la mente, ma anche da infiammare il cuore. Nemmeno in questo caso sarebbe giusto denunciare una larvata condiscendenza al sentimentalismo, a meno che non si voglia ridurre ad esso anche l’appassionata scoperta della verità da parte di un sant’Agostino. La bellezza tanto antica e sempre nuova non può certo lasciare freddo e distaccato chi ne è fulminato e rapito: ciò che è vero, buono e bello attira e conquista per virtù propria, purché ci si arrenda beati a Colui che lo realizza totalmente in Sé in modo personale, come un Tu di insuperabile fascino alla cui rivelazione crolla spontaneamente qualsiasi barriera, in un gioco paradossale (che la ragione non riesce a scandagliare fino in fondo) tra libera accoglienza e irresistibile trionfo della grazia.

Da questo punto di vista, se vogliamo, la modernità non ha apportato nulla che non fosse già noto grazie alle Confessioni dell’Ipponate, ma ce l’ha fatto forse riscoprire e apprezzare in modo nuovo. Non è un vantaggio da poco. Non lo sarebbe stato quando, sessant’anni fa, una vita di fede ridotta a un certo numero di pratiche e precetti esteriori era già entrata in profonda crisi; se una totalità di vescovi formatisi alla vecchia scuola avesse interiorizzato un po’ di più quanto ricevuto dal passato, probabilmente, non avrebbero lasciato correre né certe ambiguità del Vaticano II, né la scandalosa ribellione all’Humanae vitae, né quella distruzione della liturgia che fu imposta come “riforma”. Non è un vantaggio da poco neanche oggi, dopo che un illusorio rinnovamento, centrato ancora sulle forme esterne, ha lasciato dietro di sé cumuli di macerie spirituali o, quando va bene, una misera vita cristiana che non può decollare per inconsistenza interna. Nel caso dell’appartenenza a movimenti, poi, il fatto di seguire una prassi determinata, valida per tutti, dispensa generalmente gli aderenti dallo sforzo individuale necessario per progredire nelle virtù e crescere nella santità; di solito non si ha la minima idea del paziente lavorio personale richiesto dalla correzione di vizi e difetti, che in un clima di esaltata autoconferma appare del tutto superflua. Spesso, soprattutto nei gruppi giovanili, norma e valore supremo è un becero spontaneismo che calpesta perfino le esigenze più elementari della carità, quali il rispetto per gli altri e la buona educazione.

La soluzione non è un indottrinamento forzato che nasconda le carenze di umanità gracili e ferite sotto strati di nozioni nominali, né un attivismo indiscreto che soffi sul fuoco di squilibri interiori, esasperando sofferenze inconfessate o conflitti non ammessi. Per l’ennesima volta, tener conto delle moderne acquisizioni della psicologia non significa sconfinare in quello psicologismo che mette al bando l’elemento soprannaturale dell’esistenza cristiana, bensì riconoscere, in perfetta continuità con la Tradizione, che la grazia suppone la natura – e che quest’ultima può avere talvolta dei problemi che influiscono sulla vita di grazia e che, ignorati, finiranno col farla deviare verso una religiosità compulsiva o verso alienanti pseudomisticismi. È troppo comodo buttare indistintamente a mare tutto ciò che può salutarmente rimetterci in discussione, fornendoci la chiave per aprire le sbarre della prigione in cui, sia pure con le migliori intenzioni, potremmo esserci rinchiusi da soli. Non serve andare a caccia di scandali e misfatti su cui sfogare il proprio malessere, se la sua radice è all’interno: più materiale si trova, in questo caso, più se ne vuol trovare per giustificare un disagio che, per quanto acuito dalle circostanze esterne, nasce da dentro.

Un vero cristiano non è un attivista che, fasciando di nominalistiche bende le piaghe lasciate da cinquant’anni di devastazione, si illude di vincere con la sua agitazione lo scontento per sé e per il mondo in cui vive, ma una persona cui una fede viva, nata da un reale incontro con Cristo, ha permesso di riconciliarsi anzitutto con la propria storia, poi di guardare alla realtà (per atroce che sia) con la luce della speranza che viene da Lui, così da potervi immettere, quale Suo strumento, dei germi di bene che la trasformeranno a poco a poco, irrorati dalla preghiera e dal sacrificio fecondato dalla Sua grazia. Chi preferisce la rabbia e la frustrazione – pur di non ammettere il proprio errore – si imbestialirà per queste riflessioni appiccicando ad esse etichette infamanti; chi invece ha davvero conosciuto il Signore sarà più indulgente e, con l’aiuto di Dio, sentirà attenuarsi la sofferenza e accrescersi la pace. Al di là dell’uso-abuso della misericordia nella Chiesa attuale, possiamo pure concederci il lusso di prenderla sul serio, dapprima ciascuno per sé e poi per gli altri. Gesù non la concede ad astratte entità senza volto, ma a soggetti viventi nella storia che ne facciano un’esperienza personale e corrispondano ad essa con un’adesione libera, intima e amorosa.

lunedì 12 marzo 2018

S. Gregorio Magno: brevi estratti





Papa Gregorio I, San Gregorio Magno, fu 64° Vescovo di Roma e Papa. (540-604)



“Le grazie della contemplazione non ci saranno mai concesse se non ci applichiamo con la massima cura alla meditazione, alle letture quotidiane, alla preghiera e se non cerchiamo di approfondire le verità che sono alla nostra portata.”



“Il peccato negato diventa grande il doppio.”



“Chi ha per così dire dilatato la propria anima con le opere sante, deve ancora dilatarla con l'intimo esercizio della contemplazione.”



“La sapienza di questo mondo sta nel coprire con astuzia i propri sentimenti, nel velare il pensiero con le parole, nel mostrare vero il falso e falso il vero.”


Papa Gregorio I, detto papa Gregorio Magno ovvero il Grande , fu il 64º vescovo di Roma e Papa della Chiesa cattolica, dal 3 settembre 590 fino alla sua morte. La Chiesa cattolica lo venera come santo e dottore della Chiesa.

Riferimento: https://le-citazioni.it/autori/papa-gregorio-i/

Cornelio Fabro. Evangelizzazione: peccato e conversione

Il messaggio della salvezza, e perciò della speranza e della gioia, è portato agli uomini sulla terra dagli Angeli: un Angelo appare a Zaccaria per annunziare il concepimento di Giovanni, l’Angelo annunzia alla Beata Vergine che diverrà Madre del Figlio dell’Altissimo e Salvatore del mondo, l’Angelo illumina e conforta Giuseppe… e conforta Gesù nell’agonia dell’Orto.

Gli Angeli vengono dal Cielo, messaggeri della divina Verità e Misericordia, per riaccendere nell’uomo la luce e la speranza di sfuggire alle spire della disperazione che sale dalla palude del mondo: dalle allucinazioni delle sue vane filosofie, dalle illusioni delle scienze umane fisiche o antropologiche che siano, dai tormenti manifesti e subdoli delle passioni, dalle remore e viltà – e pare alle volte che (per paradosso) siano proprio queste l’ostacolo principale all’efficacia della divina grazia nelle anime – che tiene e trattiene sul posto dallo slanciarsi quanti hanno pur promesso di seguire Cristo e militare sotto lo stendardo della Croce. Ed ecco gli Angeli, messaggeri del mondo a venire e di una vita eterna senza morte e dolore, hanno aperto all’uomo la finestra dalla quale irrompe all’anima il raggio che vince ogni tenebra. Ed il primo passo della fede è la consapevolezza cioè l’accettazione di questa verità che trascende ogni senso e ragione e che insieme dà senso, nella luce della fede, ad ogni cosa e illumina ogni ragione. L’Angelo perciò non è un essere a noi estraneo: l’Angelo buono è il confidente di Dio che diventa l’amico dell’uomo, il garante della divina misericordia, una luce continua e una certezza che Dio non ha abbandonato l’uomo. La storia universale in grande – ieri come oggi – e la storia particolare di ciascuno in piccolo – anch’essa ieri come oggi – non sono che prove laceranti che l’uomo non può salvare l’uomo.
Noi cristiani, per nostra fortuna, abbiamo il Vangelo e la vita dei santi, le parole di Cristo e l’esempio di amore e di sangue di tanti suoi veri servi e seguaci, ad illuminarci. Ma questa luce sembra oggi offuscarsi per tante aspirazioni ed istanze mondane che stanno agli antipodi della penitenza che Cristo chiede ai suoi discepoli: «Se non farete penitenza, perirete tutti allo stesso modo» (Lc. 13, 3). Il progetto «uomo», fin quando è lasciato nelle mani dell’uomo, non riesce ad avere alcun senso: si spappola negli stordimenti infiniti delle passioni pubbliche e private, si dilegua nel fumo delle vanità e nella disperazione delle generazioni travolte nei vortici delle ideologie e delle contese per l’egemonia della verità e della libertà.
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Questa attrazione per l’errore e per la falsità, per le opinioni strampalate e le soddisfazioni illecite, è il peccato: essa costituisce insieme la radice e il frutto del peccato. Lo ha annunciato l’Angelo ed il Vangelo non ha senso, si risolve in una fiaba, senza lo sfondo oscuro del peccato: come ha fatto il pensiero moderno che ha ridotto il peccato alla semplice privazione o negazione che è propria della coscienza finita (Kant), sottraendolo alla lotta fra la verità e libertà che Dio ha proposto come prova all’uomo. L’Angelo invece annunzia a Zaccaria che Giovanni «sarà ripieno di Spirito Santo e convertirà molti d’Israele al Signore loro Dio… per preparare a Dio un popolo ben disposto» (Lc. 1, 15-17). Cioè il Regno di Dio comincia con la «conversione del cuore» che è un rovesciamento d’orizzonte il quale comporta morte e mortificazione: ma è in questo orizzonte, voluto dalla divina misericordia, che si consumerà il giudizio ultimo della storia e si placherà il fragore delle passioni ed il pianto delle generazioni. Il giudice sarà lo stesso Salvatore di cui l’Angelo assicura Maria che «…sarà chiamato Figlio di Dio» (Lc. 1, 36).
Non a caso allora le prime parole di Cristo nell’annunziare il suo ministero, conservateci da Marco, annunziano la salvezza come «progetto penitenziale» di tutta la persona, nel corpo e nello spirito: «Il tempo è compiuto ed il regno di Dio è vicino, fate penitenza e credete al Vangelo» (Mr. 1, 15). La penitenza è pertanto consustanziale col progetto divino della salvezza od anche, per esprimerci con un impegno più diretto ed esistenziale, la penitenza è la contemporaneità con la verità che salva e che i Santi hanno chiamata e praticata come l’imitazione di Cristo. Ecco la «buona Novella» che qui l’evangelista chiama il Vangelo del Regno di Dio: è un agere contra, come dirà S. Ignazio di Loyola, contro il nemico esterno che è il mondo, contro il nemico interno che siamo noi stessi e per ciascuno il proprio io e contro il nemico interno ed esterno ad un tempo – perché dà man forte ai due precedenti – che è il diavolo, l’avversario di Dio e dell’uomo fin dall’inizio della storia, il principe di questo mondo che sarà sconfitto solo con la fine ed il giudizio della storia.
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Anche se l’espressione può sembrare grezza e paradossale, si può e si deve allora dire che «l’accettazione della realtà del peccato» è la porta d’ingresso nel Regno di Dio ossia nel progetto misericordioso di Dio per la salvezza. C’è misericordia da offrire dove c’è miseria da soccorrere e guarire e la miseria prima, che disvela il dolore di ogni altra miseria, è il peccato. In questo contesto di dolore e di turbamento, che è la condizione primaria per avvertire il bisogno della salvezza, l’accettazione della realtà del peccato diventa la scoperta del dolore e dell’amore: «Nell’amore… godo… nel dolore» – scriveva Gemma Galgani (Lett. 103), straziata dal male che la porterà alla morte. Ed è l’anima innocente della Galgani – come i grandi mistici che vedono nel mondo della santità di Dio l’abisso di male della creatura peccatrice – a descrivere nelle Lettere al padre Germano e nelle Estasi la confusione per i suoi peccati: ha «il cuore ripieno di peccati» (Lett. 7), «i peccati sono tanti ogni minuto» (Lett. 8), ha «il cuore tutto pieno di peccati» ed ha «aggiunto peccati a peccati» (Lett. 15 e 16) fino a chiamarsi «cenere di peccato: lo dica a tutti» (Lett. 112). E nelle Estasi ancora si professa «gran peccatrice» e «carica di peccati» (pp. 8, 18, 22): «tutti i giorni della mia vita io ho sempre peccato» (p. 78), «tutta piena di peccati» (p. 31), ha fatto «…tanti peccati come i palpiti del cuore» (p. 49) e si sgomenta a vedere il «quadro orribile» dell’anima sua (p. 238). E leggiamo insieme la confessione sorprendente: «È quasi una bella sorte per me essere nata peccatrice» (p. 103). Ed a lei come a S. Teresa d’Avila, Iddio mostra il posto che «avrebbe occupato nell’inferno» (Lett. 57) e riconosce che «il posto dei Santi non è per me» (Lett. 21 bis).
Nel diario del lunedì 20 agosto (1900) questo sentimento sembra forzare ogni limite: «Stasera, com’è solito accadermi spesse volte, mi sono venuti alla mente tutti i miei gran peccati, ma con tanta enormità, che ho dovuto farmi forza per non piangere forte: ne sentivo un dolore sì vivo, che mai avevo provato. Il numero di essi oltrepassava la mia età e la mia capacità: però, ciò che mi consola, ne ho provato grandissimo dolore che vorrei che questo dolore mai si cancellasse dalla mia mente e mai mi diminuisse. Dio mio! fino a che è giunta la mia malizia!» (p. 203).
Che significa questo accoramento dei santi sui peccati che, per quanto a noi sembra, non hanno neppure commessi, mentre noi restiamo quasi impassibili dopo averli commessi? È qui, in questa avvertenza del male congenito alla nostra natura, del peccato che sta sempre in agguato sul limitare della coscienza, che consiste il senso cristiano della infinita miseria potenziale e reale della nostra condizione. Qui viene sconfitta ogni psicologia che pretende spiegare la libertà come perfetta antinomia dell’agire nella trasparenza dei motivi che sono in possesso della ragione: una dolorosa e dannosa illusione. La vera libertà è altrove.
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La libertà cristiana è quella che si trascende in Dio nell’implorazione del suo aiuto e della sua grazia: è il «frutto» appunto della conversione del cuore. «Libertà» è nel suo concetto primario la capacità che ha l’uomo di disporre di sé e di darsi quella fisionomia morale che egli prospetta col progetto della propria vita che è la scelta della vocazione. Per il cristiano infatti libertà e verità vanno insieme e si appartengono come il concavo e il convesso e si specchiano l’una nell’altra. Perciò Cristo ha proclamato che «…la verità vi farà liberi» e che «saremo veramente liberi soltanto se il Figlio ci avrà liberati» (Gv. 8, 32 e 36). E per questo l’Apostolo chiama la vocazione del cristiano un appello di libertà: «Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà…» (Gal. 5, 13) – un appello di fierezza e di consolazione, ma anche di responsabilità nelle incertezze di oscure e segrete ambasce che attendono ogni cristiano alla prova. Ed è in questo punto che le anime profonde, quali sono i Santi, «vedono» l’infinita speranza col timore della propria fragilità: la «vedono» cioè la sentono nell’intimo di sé per una speciale illuminazione di Dio, per un tocco interiore della divina grazia che fa trasalire l’anima di fronte alla santità di Dio e la colma di sgomento e di dolore di fronte alla bontà misericordiosa di Dio. Nella Bibbia Dio si presenta all’uomo come Padre amoroso, che si china sulla sua creatura a chiederle fedeltà e amore in spirituale intimo sposalizio. E Gesù, il Verbo fatto carne e immolato sulla Croce per l’uomo, si è «svenato» – come dice s. Caterina – per lavare col suo Sangue il peccato commesso dalla nostra libertà la quale, peccando, perde se stessa e si fa schiava della creatura.
Si badi bene di non abusare dei termini: la libertà non è affatto un mistero, essa è la realtà più ovvia e lampante poiché la libertà si dà nella presenza essenziale che ha l’io a se stesso: questo è il punto di partenza e rimane comunque il punto di partenza, una possibilità sempre aperta di riscatto e di salvezza. Ma la libertà si deve attuare e conservare nella tensione infinita dell’indipendenza originaria e ciò è possibile – questo ci insegna la realtà del male e del peccato dentro e fuori di noi – soltanto in unione con Dio, col «complementum spiritus» datoci da Dio, con l’effusione misteriosa e dolce della sua grazia.
Il peccato è un mistero, mysterium iniquitatis; anche la grazia è un mistero, mysterium amoris; ma non è un mistero la nostra volontà che pecca, ce l’attestano i Santi: «Ciò che mi affliggeva, scrive ancora di sé la “povera Gemma” nell’Autobiografia, era il non poter amare Gesù come avrei voluto; mi davo premura di non offenderlo, ma la mia cattiva inclinazione al male era sì forte che senza una grazia speciale di Dio sarei caduta nell’inferno» (p. 256).
Ecco perché il «senso del peccato» rinsalda nel cristiano i contrafforti della luce, ne attinge lume e conforto nell’arduo cammino dell’esistenza fra le insidie grossolane e sottili dei dubbi e delle passioni.

(1977)

da

http://www.corneliofabro.org/documento.asp?ID=646


Proverbi 3, 5-6

 

Proverbi 3,5-6

 

5 Confida nel Signore con tutto il cuore
e non appoggiarti sulla tua intelligenza;
6 in tutti i tuoi passi pensa a lui
ed egli appianerà i tuoi sentieri.



(nell'immagine, 
Andrea Mantegna, orazione nell’Orto, 1459, National Gallery, Londra)

lunedì 19 febbraio 2018

Usa, creato il primo embrione ibrido pecora-uomo

riprendo l'inquietante notizia da TgCom

"Lʼannuncio arriva dagli scienziati dellʼuniversità della California. Lo stesso gruppo di ricerca aveva realizzato un embrione uomo-maiale"

 

"Per la prima volta è stato creato in laboratorio un embrione ibrido uomo-pecora, in cui una cellula su 10mila è umana. L'annuncio arriva dagli scienziati dell'università della California Davis. Un anno fa circa lo stesso gruppo di ricerca aveva realizzato un embrione di uomo e maiale, dove le cellule umane erano una su 100mila. L'ibrido, spiegano i ricercatori, è un passo verso la possibilità di far crescere organi umani negli animali.

 

 L'ibrido è stato ottenuto introducendo cellule staminali adulte "riprogrammate" nell'embrione di pecora, che poi è stato lasciato crescere per 28 giorni, il massimo per cui l'esperimento aveva ottenuto l'autorizzazione, di cui 21 nell'utero di un animale. Nel periodo le cellule umane si sono riprodotte, spiega Pablo Ross, uno degli autori, anche se per arrivare alla possibilità di avere un intero organo serve un rapporto di uno a 100.

 


Nella stessa presentazione i ricercatori hanno spiegato di essere riusciti ad ottenere embrioni di pecora e maiale privi del pancreas grazie alla tecnica Crispr di "copia e incolla" del Dna, un passo ulteriore per far "ospitare" agli animali gli organi umani. "Anche se c'è molto da lavorare - sottolinea il ricercatore - gli organi prodotti in queste chimere interspecie potrebbero un giorno costituire un modo per soddisfare la domanda di organi, trapiantando ad esempio un pancreas ibridizzato in un paziente".


L'uso delle pecore, ha spiegato ancora il ricercatore al Guardian, ha molti vantaggi rispetto al maiale, a partire dal fatto che bastano quattro embrioni e non cinquanta per far iniziare una gravidanza. Anche questo animale inoltre ha organi di dimensioni simili a quelli umani."

 

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fin qui la notizia.

A me tutto ciò ricorda "Coma Profondo"    

film del 1978 diretto da Michael Crichton, tratto dal romanzo "Coma" di Robin Cook.

 

 

E mette in evidenza che da quando si è deciso di "mettere l'uomo al centro" e non più Dio, 

si è smarrito il senso del limite. Si è convinti di poter "creare" la vita dal nulla, (ovviamente così non è, non ci si può sostituire a Dio), quando la si potrà solo "duplicare" malamente. 

Tutto questo, ovviamente, si dice sia "per l'uomo". 

Anche gli antichi del mondo precristiano avrebbero visto queste manipolazioni come Hybris.

De Gregori da un'intervista....

Riprendo un tema d'attualità (e anche gossip che ha riempito noiosamente tutte le cronache) degli ultimi mesi secondo le oneste parole del cantautore, 
che approfitta anche per riguardare in maniera inedita tutta una stagione di contenuti e atteggiamenti, e pure di deformazioni ideologiche. 
Estraggo da Libero:

Molestie sessuali, Francesco De Gregori: "Il caso Weinstein? Le donne possono scegliere" 


In fondo lo avevamo sempre saputo, che era dei nostri. Uno che immedesimandosi in Bufalo Bill canta «tra la vita e la morte avrei scelto l' America» non può essere dei loro, dei terzomondisti risentiti, dei censori multiculti, degli intossicati ideologici. Francesco De Gregori è ormai un corpo estraneo nell' album di famiglia del luogocomunismo di sinistra, tanto che vorremmo candidarlo a portabandiera intellettuale dei liberali e di conservatori.

Esageriamo? Ascoltate cosa dice, in un' intervista a Vanity Fair. Anzitutto la sconfessione di un mondo, il suo: «Nel lavoro di Rita Pavone, Gianni Morandi o Nicola Di Bari ritrovo una nettezza di significato», e «nessuna traccia di quella pretesa pedagogica che i cantautori, me compreso, portarono dentro le canzoni». È l' equivoco di almeno una generazione, nacque «quando alcuni cominciarono a pensare che la canzone dovesse non soltanto intrattenere, ma indirizzare il pensiero», per poi confessare: «Non scriverei più La Storia», perché «ci sono versi che hanno l' olezzo del gentismo, che parlano della gente a sproposito».

Ma non basta, De Gregori vuole andare a fondo nell' autoanalisi: «È sempre più difficile capire chi nella politica esprima le ragioni dei deboli e chi dei forti, per cui reagisco facendo un passo indietro». Uno scartamento di lato rispetto alle passioni ideologiche totalizzanti: «La mattina ho altro da fare: fumarmi la sigaretta al bar o parlare con quello che pulisce le foglie ai giardinetti». Un saggio minimalismo esistenziale, perché pare un delitto «entusiasmarsi per una legge elettorale di cui non si capisce niente».

Ma il pezzo forte è un altro: «Ho il massimo rispetto per chi ha scelto di votare Trump. Credo che sulla sua vittoria abbia pesato soprattutto un' ansia estetica del politicamente corretto che personalmente ho sempre trovato insopportabile». È il ripudio dell' antitrumpismo di professione, seguito da un altro non meno traumatico. Quello del femminismo vittimistico: «Se una donna viene sottoposta a un ricatto di quel tipo ha due scelte: dire sì o no. Se dice sì non è una mignotta, se dice no non è una perseguitata. Scegliere appartiene alla libertà dell' individuo, ognuno fa i calcoli che crede». La libertà dell' individuo è la stella polare, è la pernacchia definitiva ai dogmi della Chiesa progressista, è quasi un De Gregori thatcheriano e reaganiano.

Non a caso, il gran finale è tutto contro la «cultura del piagnisteo» che ha ormai egemonizzato la sinistra degli attici e degli aperitivi. Se non è un grande eroe conservatore questo...

di Giovanni Sallusti

martedì 30 gennaio 2018

Breve riflessione sull'ovvio



Ovvio, ma di questi tempi forse non tanto.

Captando vari discorsi intorno, ecco alcuni spunti.
Ci si domanda talvolta come commettere pochi peccati. 
Ma il vero traguardo del cristiano è la santità, perchè Dio ci chiama continuamente alla santificazione.


1Tessalonicesi 4,7

"Dio non ci ha chiamati all'impurità, ma alla santificazione."

Ma come si fa a vivere nella santità? 
Certo, serve spogliarsi di sè e lasciare operare la Grazia.
Non è atteggiamento giusto nemmeno parer attendere una grazia dal cielo che poi si dice non arrivi,
se poi mai ci spogliamo di noi stessi e perseveriamo metodicamente negli stessi errori,
perchè in quel caso non è la grazia che non è arrivata, 
ma saremmo noi che ci siamo induriti
o chiusi, fino ad arrivare all'imperdonabile, che è la resistenza allo Spirito Santo.

Proverbi 23,26

"Fa' bene attenzione a me, figlio mio,
e tieni fisso lo sguardo ai miei consigli."


 
Se Dio in qualche modo ci ha chiamati, ci ha toccati, ci ha attirati a sè, 
dobbiamo imparare ad amare Dio e rivolgerci sempre a Lui; questo amore genererà in noi l’amore per i suoi Comandamenti, che mai sono passati di moda, e il desiderio di osservarli. Chi ama Dio, anche se tentato, trova piacere nell'obbedire ai suoi Comandamenti.

Giovanni 15


1 «Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. 2 Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3 Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. 4 Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. 5 Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6 Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7 Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. 8 In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. 9 Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10 Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 11 Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
12 Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. 13 Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. 14 Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. 15 Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi. 16 Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. 17
 Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri."


Se si rimane nella Comunione col Signore, conservando le sue parole nel nostro cuore e mettendole in pratica, porteremo  
il frutto dello Spirito 
che è sempre amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (Gal 5, 22).

Il vuoto spirituale invece è quello che conduce al peccato.


Dunque, praticando vari esercizi spirituali di preghiera e digiuno, o rinuncia alle cose cattive, possiamo avvicinarci al Signore e sperimentare la sua presenza nella nostra vita e il suo amore per noi.

Il Signore promette dicendo: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato” (Gv 15, 5). Quindi, quando noi gli chiediamo di purificare il nostro cuore dal quale provengono le intenzioni cattive (Mt 7, 21), Egli ci purificherà da tutte le nostre sozzure, 

ci darà un cuore nuovo, 
metterà dentro di noi uno spirito nuovo, 
porrà il suo spirito dentro di noi, 
ci farà vivere secondo i suoi statuti 
e ci farà osservare e mettere in pratica le sue leggi (Ez 36, 25 - 27).

A volte si tratta di rivoluzionare una vita intera e un'intera struttura interiore.

A volte si tratta anche di fare attenzione ai propri appetiti. Altre, di attenzione alla propria condotta. Sempre, di staccarsi dai legacci della carnalità, dagli impulsi del momento, 
ma anche dalla prigione del proprio personale psichismo, 
e aprirsi allo spirito.

Un esempio quotidiano, piccolo. Le sostanze alcoliche e le sostanze che vengono usate come droga non sono in sé e di per sé un male perché ci sono alcuni farmaci che le contengono e i medici, in alcuni casi, consigliano di assumere piccole quantità di vino rosso per i suoi effetti salutari.
Anche in tempi remoti, il vino veniva usato come medicinale per la cura di qualche malattia e per alleviare dolori, o per berlo al posto dell'acqua che spesso era infetta. Lo stesso San Paolo, nella sua prima lettera a Timoteo, gli consiglia di smettere di bere acqua, invitandolo, invece, a bere un po’ di vino a causa dello stomaco e delle sue frequenti indisposizioni (1Tm 5, 23).

Ma le S. Scritture suggeriscono in tutto moderazione, e proibiscono l’abuso delle bevande alcoliche e delle sostanze stupefacenti che alterano lo stato della coscienza.
 

Ciò che Dio comanda riguarda a queste sostanze è:
- di non ubriacarsi: “Non ubriacatevi di vino, il quale porta alla sfrenatezza, ma siate ricolmi dello Spirito” (Ef 5, 18),
- di non desiderare il vino: “Non guardare il vino quando rosseggia, quando scintilla nella coppa e scende giù piano piano; finirà con il morderti come un serpente e pungerti come una vipera” (Pr 23, 31, 32),
- di non permettere che i nostri corpi siano dominati da nulla: “Tutto mi è lecito! Ma non tutto giova. Tutto mi è lecito! Ma io non mi lascerò dominare da nulla” (1Cor 6, 12), “Promettono loro libertà, ma essi stessi sono schiavi della corruzione. Perché uno è schiavo di ciò che l’ha vinto” (2Pt 2, 19).

Con il modo di essere e il modo di comportarsi, ognuno esprime la propria personalità e si rivelano le qualità del proprio cuore.


Cristo Signore stesso disse: “L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda” (Lc 6, 45).


Siracide 5,15

"Non far male né molto né poco,
e da amico non divenire nemico"




Dunque, ci si dice appartenenti al cattolicesimo per figurare nei dati Istat,

perché così ci è stato insegnato in famiglia ed è un'abitudine,

perchè ci piacciono certi canti,

perchè ci piacciono certi riti,

o perché ci si è convertiti al Dio Vivente?



Inizialmente spesso si ricevono educazione ed insegnamenti religiosi in famiglia e in Chiesa, però ognuno, se vuole, deve coltivare la consapevolezza della presenza di Dio e il proprio rapporto intimo personale con Lui fino a sperimentare l’opera divina nella propria vita; 
perché il Cristianesimo non è formato solamente da dottrine o dogmi in cui bisogna credere, 
ma è soprattutto il vivere con Cristo.

Chi ama Dio non vuole rattristare il suo Spirito Santo (Ef 4, 30), né sopporta di vivere lontano da lui per qualsiasi motivo, in quanto “il vivere è Cristo” (Fil 1, 21), né accetta di rinunciare alla sua benedizione in ogni passo della sua vita; 

ed è consapevole di potere tutto in Colui che gli dà la forza (Fil 4, 13). 
Perciò osserva i comandamenti del Signore con gioia.