giovedì 5 luglio 2018

Tre Punti alla Modernità

Riprendo da "la Scure di Elia":

Tre punti alla modernità


La modernità, intesa come rovesciamento dell’ordine naturale (in cui Dio è principio e fine, mentre l’uomo è ordinato a Lui e il cosmo è al suo servizio), è indubbiamente la causa della crisi radicale che attanaglia la civiltà occidentale. L’essere umano, creato per conoscere, amare e servire Dio in questa vita e goderlo eternamente nell’altra, è stato dapprima collocato al centro di un mondo in cui tutto – compresa la religione – è funzionale al suo benessere terreno; poi l’uomo stesso, declassato ad animale più evoluto, ha finito con l’essere a sua volta subordinato alla salvaguardia della natura. L’artefice della propria fortuna è diventato una minaccia per l’ecosistema; la sua proliferazione, di conseguenza, è ora considerata un fenomeno dannoso da combattere e frenare in ogni modo.

Se questo è l’esito, è evidente che la modernità sia un orientamento che vada radicalmente invertito nell’interesse stesso dell’umanità, messo a repentaglio da simili idee. Sarebbe tuttavia quantomeno imprudente respingere in blocco con un giudizio indiscriminato di condanna tutto ciò che si è prodotto dopo il Medioevo, quasi non ci fosse stato più nulla di utile, ma soltanto esiziali errori e deviazioni. Che ci piaccia o no, siamo anche noi figli del nostro tempo, influenzati, malgrado le migliori intenzioni, dal suo spirito individualista, egocentrico e insubordinato, che scorrazza beffardo tanto nell’ambiente progressista che in quello tradizionalista. Cerchiamo allora di cogliere gli elementi positivi della cultura attuale tralasciandone al contempo quelli negativi, da cui dobbiamo progressivamente disintossicarci con la luce dello Spirito Santo e l’aiuto della grazia, ottenuti per mezzo del Cuore immacolato di Maria.

Mi vengono in mente almeno tre aspetti della cultura moderna che, pur senza costituire acquisizioni nuove in assoluto, sono irrinunciabili incrementi della coscienza collettiva. Il primo è una più esatta valutazione della parte del soggetto individuale nella conoscenza, sia in quella basata sulla ragione che in quella fornita dalla fede. Con ciò non intendo certo aprire un varco al soggettivismo, ma riconosco semplicemente che ognuno di noi si accosta alla verità oggettiva (naturale o rivelata) a partire da una storia particolare e con una personalità diversa, cogliendola con sfumature che posson diventare contraddittorie solo se assolutizzate, ma che altrimenti si rivelano preziose sfaccettature che arricchiscono la comprensione della realtà, la quale non è mai esaurita dalla conoscenza umana. La doverosa reazione al relativismo che dilaga purtroppo anche nella Chiesa non deve trasformarci in gladiatori che vibrano colpi di maglio a destra e a manca, privi di ogni sensibilità e delicatezza per quei lucignoli di verità e di bene che il Signore non vuole siano spenti.

Una maggiore attenzione al soggetto mette in evidenza, poi, il necessario ruolo dell’esperienza personale nel processo di conversione e di crescita nella fede. Non si tratta, neanche questa volta, di pagare un tributo al modernismo, che pretende di rintracciare nell’esperienza umana l’origine di ogni religione (compresa quella rivelata, la quale nasce invece da una serie di interventi divini nella storia), bensì di riconoscere che l’irruzione della grazia è ben qualcosa di sperimentabile, sebbene la sua essenza soprannaturale rimanga al di là di qualsiasi effetto sensibile. Nessuno si converte a Cristo a forza di mero studio o di puro ragionamento, ma perché, in qualche modo, sperimenta l’incontro con Lui e ne scopre la presenza nella propria vita. La fede non è frutto di un’adesione asettica a un teorema o a un sillogismo, ma deve avere un significato per l’esistenza. Anche qui una giusta opposizione all’esistenzialismo – almeno a quello che si è rivelato uno scivolo verso l’ateismo – non va spinta fino a relegare l’esperienza quotidiana in un limbo escluso dalla pace e dalla gioia che, già nello stato di viatore, colmano l’anima del vero credente.

E veniamo al terzo punto. L’autenticità della fede richiede un’adesione interiore – non soltanto convinta, ma pure amorosa – alla verità udita nella predicazione, che deve perciò essere tale non solo da illuminare la mente, ma anche da infiammare il cuore. Nemmeno in questo caso sarebbe giusto denunciare una larvata condiscendenza al sentimentalismo, a meno che non si voglia ridurre ad esso anche l’appassionata scoperta della verità da parte di un sant’Agostino. La bellezza tanto antica e sempre nuova non può certo lasciare freddo e distaccato chi ne è fulminato e rapito: ciò che è vero, buono e bello attira e conquista per virtù propria, purché ci si arrenda beati a Colui che lo realizza totalmente in Sé in modo personale, come un Tu di insuperabile fascino alla cui rivelazione crolla spontaneamente qualsiasi barriera, in un gioco paradossale (che la ragione non riesce a scandagliare fino in fondo) tra libera accoglienza e irresistibile trionfo della grazia.

Da questo punto di vista, se vogliamo, la modernità non ha apportato nulla che non fosse già noto grazie alle Confessioni dell’Ipponate, ma ce l’ha fatto forse riscoprire e apprezzare in modo nuovo. Non è un vantaggio da poco. Non lo sarebbe stato quando, sessant’anni fa, una vita di fede ridotta a un certo numero di pratiche e precetti esteriori era già entrata in profonda crisi; se una totalità di vescovi formatisi alla vecchia scuola avesse interiorizzato un po’ di più quanto ricevuto dal passato, probabilmente, non avrebbero lasciato correre né certe ambiguità del Vaticano II, né la scandalosa ribellione all’Humanae vitae, né quella distruzione della liturgia che fu imposta come “riforma”. Non è un vantaggio da poco neanche oggi, dopo che un illusorio rinnovamento, centrato ancora sulle forme esterne, ha lasciato dietro di sé cumuli di macerie spirituali o, quando va bene, una misera vita cristiana che non può decollare per inconsistenza interna. Nel caso dell’appartenenza a movimenti, poi, il fatto di seguire una prassi determinata, valida per tutti, dispensa generalmente gli aderenti dallo sforzo individuale necessario per progredire nelle virtù e crescere nella santità; di solito non si ha la minima idea del paziente lavorio personale richiesto dalla correzione di vizi e difetti, che in un clima di esaltata autoconferma appare del tutto superflua. Spesso, soprattutto nei gruppi giovanili, norma e valore supremo è un becero spontaneismo che calpesta perfino le esigenze più elementari della carità, quali il rispetto per gli altri e la buona educazione.

La soluzione non è un indottrinamento forzato che nasconda le carenze di umanità gracili e ferite sotto strati di nozioni nominali, né un attivismo indiscreto che soffi sul fuoco di squilibri interiori, esasperando sofferenze inconfessate o conflitti non ammessi. Per l’ennesima volta, tener conto delle moderne acquisizioni della psicologia non significa sconfinare in quello psicologismo che mette al bando l’elemento soprannaturale dell’esistenza cristiana, bensì riconoscere, in perfetta continuità con la Tradizione, che la grazia suppone la natura – e che quest’ultima può avere talvolta dei problemi che influiscono sulla vita di grazia e che, ignorati, finiranno col farla deviare verso una religiosità compulsiva o verso alienanti pseudomisticismi. È troppo comodo buttare indistintamente a mare tutto ciò che può salutarmente rimetterci in discussione, fornendoci la chiave per aprire le sbarre della prigione in cui, sia pure con le migliori intenzioni, potremmo esserci rinchiusi da soli. Non serve andare a caccia di scandali e misfatti su cui sfogare il proprio malessere, se la sua radice è all’interno: più materiale si trova, in questo caso, più se ne vuol trovare per giustificare un disagio che, per quanto acuito dalle circostanze esterne, nasce da dentro.

Un vero cristiano non è un attivista che, fasciando di nominalistiche bende le piaghe lasciate da cinquant’anni di devastazione, si illude di vincere con la sua agitazione lo scontento per sé e per il mondo in cui vive, ma una persona cui una fede viva, nata da un reale incontro con Cristo, ha permesso di riconciliarsi anzitutto con la propria storia, poi di guardare alla realtà (per atroce che sia) con la luce della speranza che viene da Lui, così da potervi immettere, quale Suo strumento, dei germi di bene che la trasformeranno a poco a poco, irrorati dalla preghiera e dal sacrificio fecondato dalla Sua grazia. Chi preferisce la rabbia e la frustrazione – pur di non ammettere il proprio errore – si imbestialirà per queste riflessioni appiccicando ad esse etichette infamanti; chi invece ha davvero conosciuto il Signore sarà più indulgente e, con l’aiuto di Dio, sentirà attenuarsi la sofferenza e accrescersi la pace. Al di là dell’uso-abuso della misericordia nella Chiesa attuale, possiamo pure concederci il lusso di prenderla sul serio, dapprima ciascuno per sé e poi per gli altri. Gesù non la concede ad astratte entità senza volto, ma a soggetti viventi nella storia che ne facciano un’esperienza personale e corrispondano ad essa con un’adesione libera, intima e amorosa.