Il messaggio della
salvezza, e perciò della speranza e della gioia, è portato agli uomini sulla
terra dagli Angeli: un Angelo appare a Zaccaria per annunziare il concepimento
di Giovanni, l’Angelo annunzia alla Beata Vergine che diverrà Madre del Figlio
dell’Altissimo e Salvatore del mondo, l’Angelo illumina e conforta Giuseppe… e
conforta Gesù nell’agonia dell’Orto.
Gli Angeli
vengono dal Cielo, messaggeri della divina Verità e Misericordia, per
riaccendere nell’uomo la luce e la speranza di sfuggire alle spire della
disperazione che sale dalla palude del mondo: dalle allucinazioni delle sue vane
filosofie, dalle illusioni delle scienze umane fisiche o antropologiche che
siano, dai tormenti manifesti e subdoli delle passioni, dalle remore e viltà – e
pare alle volte che (per paradosso) siano proprio queste l’ostacolo principale
all’efficacia della divina grazia nelle anime – che tiene e trattiene sul posto
dallo slanciarsi quanti hanno pur promesso di seguire Cristo e militare sotto lo
stendardo della Croce. Ed ecco gli Angeli, messaggeri del mondo a venire e di
una vita eterna senza morte e dolore, hanno aperto all’uomo la finestra dalla
quale irrompe all’anima il raggio che vince ogni tenebra. Ed il primo passo
della fede è la consapevolezza cioè l’accettazione di questa verità che
trascende ogni senso e ragione e che insieme dà senso, nella luce della fede, ad
ogni cosa e illumina ogni ragione. L’Angelo perciò non è un essere a noi
estraneo: l’Angelo buono è il confidente di Dio che diventa l’amico dell’uomo,
il garante della divina misericordia, una luce continua e una certezza che Dio
non ha abbandonato l’uomo. La storia universale in grande – ieri come oggi – e
la storia particolare di ciascuno in piccolo – anch’essa ieri come oggi – non
sono che prove laceranti che l’uomo non può salvare l’uomo.
Noi
cristiani, per nostra fortuna, abbiamo il Vangelo e la vita dei santi, le parole
di Cristo e l’esempio di amore e di sangue di tanti suoi veri servi e seguaci,
ad illuminarci.
Ma questa luce sembra oggi offuscarsi per tante aspirazioni ed
istanze mondane che stanno agli antipodi della penitenza che Cristo chiede ai
suoi discepoli: «Se non farete penitenza, perirete tutti allo stesso modo» (Lc.
13, 3). Il progetto «uomo», fin quando è lasciato nelle mani dell’uomo, non
riesce ad avere alcun senso: si spappola negli stordimenti infiniti delle
passioni pubbliche e private, si dilegua nel fumo delle vanità e nella
disperazione delle generazioni travolte nei vortici delle ideologie e delle
contese per l’egemonia della verità e della libertà.
* * *
Questa
attrazione per l’errore e per la falsità, per le opinioni strampalate e le
soddisfazioni illecite, è il peccato: essa costituisce insieme la radice e il
frutto del
peccato. Lo ha annunciato l’Angelo ed il Vangelo non ha senso,
si risolve in una fiaba, senza lo sfondo oscuro del peccato:
come ha fatto il
pensiero moderno che ha ridotto il peccato alla semplice privazione o negazione
che è propria della coscienza finita (Kant), sottraendolo alla lotta fra la
verità e libertà che Dio ha proposto come prova all’uomo. L’Angelo invece
annunzia a Zaccaria che Giovanni «sarà ripieno di Spirito Santo e convertirà
molti d’Israele al Signore loro Dio… per preparare a Dio un popolo ben disposto»
(
Lc. 1, 15-17).
Cioè il Regno di Dio comincia con la «conversione del
cuore» che è un rovesciamento d’orizzonte il quale comporta morte e
mortificazione: ma è in questo orizzonte, voluto dalla divina misericordia, che
si consumerà il giudizio ultimo della storia e si placherà il fragore delle
passioni ed il pianto delle generazioni. Il giudice sarà lo stesso Salvatore di
cui l’Angelo assicura Maria che «…sarà chiamato Figlio di Dio» (Lc. 1,
36).
Non a caso
allora le prime parole di Cristo nell’annunziare il suo ministero, conservateci
da Marco, annunziano
la salvezza come «progetto penitenziale» di tutta la
persona, nel corpo e nello spirito: «Il tempo è compiuto ed il regno di Dio è
vicino, fate penitenza e credete al Vangelo» (Mr. 1, 15). La penitenza è
pertanto consustanziale col progetto divino della salvezza od anche, per
esprimerci con un impegno più diretto ed esistenziale, la penitenza è la
contemporaneità con la verità che salva e che i Santi hanno chiamata e praticata
come l’imitazione di Cristo. Ecco la «buona Novella» che qui l’evangelista
chiama il Vangelo del Regno di Dio: è un agere contra, come dirà S.
Ignazio di Loyola, contro il nemico esterno che è il mondo, contro il nemico
interno che siamo noi stessi e per ciascuno il proprio io e contro il nemico
interno ed esterno ad un tempo – perché dà man forte ai due precedenti – che è
il diavolo, l’avversario di Dio e dell’uomo fin dall’inizio della storia, il
principe di questo mondo che sarà sconfitto solo con la fine ed il giudizio
della storia.
* * *
Anche se
l’espressione può sembrare grezza e paradossale, si può e si deve allora dire
che «l’accettazione della realtà del peccato» è la porta d’ingresso nel Regno di
Dio ossia nel progetto misericordioso di Dio per la salvezza. C’è misericordia
da offrire dove c’è miseria da soccorrere e guarire e la miseria prima, che
disvela il dolore di ogni altra miseria, è il peccato. In questo contesto di
dolore e di turbamento, che è la condizione primaria per avvertire il bisogno
della salvezza, l’accettazione della realtà del peccato diventa la scoperta del
dolore e dell’amore: «Nell’amore… godo… nel dolore» – scriveva Gemma Galgani (
Lett.
103), straziata dal male che la porterà alla morte. Ed è l’anima innocente
della Galgani – come i grandi mistici che vedono nel mondo della santità di Dio
l’abisso di male della creatura peccatrice – a descrivere nelle Lettere al padre
Germano e nelle Estasi la confusione per i suoi peccati: ha «il cuore ripieno di
peccati» (
Lett. 7), «i peccati sono tanti ogni minuto» (
Lett. 8),
ha «il cuore tutto pieno di peccati» ed ha «aggiunto peccati a peccati» (
Lett.
15 e 16) fino a chiamarsi «cenere di peccato: lo dica a tutti» (
Lett. 112).
E nelle Estasi ancora si professa «gran peccatrice» e «carica di peccati» (pp.
8, 18, 22): «tutti i giorni della mia vita io ho sempre peccato» (p. 78), «tutta
piena di peccati» (p. 31), ha fatto «…tanti peccati come i palpiti del cuore»
(p. 49) e si sgomenta a vedere il «quadro orribile» dell’anima sua (p. 238). E
leggiamo insieme la confessione sorprendente: «È quasi una bella sorte per me
essere nata peccatrice» (p. 103). Ed a lei come a S. Teresa d’Avila, Iddio
mostra il posto che «avrebbe occupato nell’inferno» (
Lett. 57) e
riconosce che «il posto dei Santi non è per me» (
Lett.
21 bis).
Nel diario del lunedì 20 agosto
(1900) questo sentimento sembra forzare ogni limite: «Stasera, com’è solito
accadermi spesse volte, mi sono venuti alla mente tutti i miei gran peccati, ma
con tanta enormità, che ho dovuto farmi forza per non piangere forte: ne sentivo
un dolore sì vivo, che mai avevo provato. Il numero di essi oltrepassava la mia
età e la mia capacità: però, ciò che mi consola, ne ho provato grandissimo
dolore che vorrei che questo dolore mai si cancellasse dalla mia mente e mai mi
diminuisse. Dio mio! fino a che è giunta la mia malizia!» (p. 203).
Che significa
questo accoramento dei santi sui peccati che, per quanto a noi sembra, non hanno
neppure commessi, mentre noi restiamo quasi impassibili dopo averli commessi? È
qui, in questa avvertenza del male congenito alla nostra natura, del peccato che
sta sempre in agguato sul limitare della coscienza, che consiste il senso
cristiano della infinita miseria potenziale e reale della nostra condizione.
Qui
viene sconfitta ogni psicologia che pretende spiegare la libertà come perfetta
antinomia dell’agire nella trasparenza dei motivi che sono in possesso della
ragione: una dolorosa e dannosa illusione. La vera libertà è altrove.
* * *
La libertà
cristiana è quella che si trascende in Dio nell’implorazione del suo aiuto e
della sua grazia: è il «frutto» appunto della conversione del cuore. «Libertà» è
nel suo concetto primario la capacità che ha l’uomo di disporre di sé e di darsi
quella fisionomia morale che egli prospetta col progetto della propria vita che
è la scelta della vocazione. Per il cristiano infatti libertà e verità vanno
insieme e si appartengono come il concavo e il convesso e si specchiano l’una
nell’altra. Perciò Cristo ha proclamato che «…la verità vi farà liberi» e che
«saremo veramente liberi soltanto se il Figlio ci avrà liberati» (
Gv. 8,
32 e 36). E per questo l’Apostolo chiama la vocazione del cristiano un appello
di libertà: «Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà…» (
Gal. 5, 13)
– un appello di fierezza e di consolazione, ma anche di responsabilità nelle
incertezze di oscure e segrete ambasce che attendono ogni cristiano alla prova.
Ed è in questo punto che le anime profonde, quali sono i Santi, «vedono»
l’infinita speranza col timore della propria fragilità: la «vedono» cioè la
sentono nell’intimo di sé per una speciale illuminazione di Dio, per un tocco
interiore della divina grazia che fa trasalire l’anima di fronte alla santità di
Dio e la colma di sgomento e di dolore di fronte alla bontà misericordiosa di
Dio. Nella Bibbia Dio si presenta all’uomo come Padre amoroso, che si china
sulla sua creatura a chiederle fedeltà e amore in spirituale intimo sposalizio.
E Gesù, il Verbo fatto carne e immolato sulla Croce per l’uomo, si è «svenato» –
come dice s. Caterina – per lavare col suo Sangue il peccato commesso dalla
nostra libertà la quale, peccando, perde se stessa e si fa schiava della
creatura.
Si badi bene
di non abusare dei termini: la libertà non è affatto un mistero, essa è la
realtà più ovvia e lampante poiché la libertà si dà nella presenza essenziale
che ha l’io a se stesso: questo è il punto di partenza e rimane comunque il
punto di partenza, una possibilità sempre aperta di riscatto e di salvezza. Ma
la libertà si deve attuare e conservare nella tensione infinita
dell’indipendenza originaria e ciò è possibile – questo ci insegna la realtà del
male e del peccato dentro e fuori di noi –
soltanto in unione con Dio,
col «
complementum spiritus» datoci da Dio, con l’effusione misteriosa e
dolce della sua grazia.
Il peccato è
un mistero,
mysterium iniquitatis; anche la grazia è un mistero,
mysterium amoris; ma non è un mistero la nostra volontà che pecca, ce
l’attestano i Santi: «Ciò che mi affliggeva, scrive ancora di sé la “povera
Gemma” nell’Autobiografia, era il non poter amare Gesù come avrei voluto; mi
davo premura di non offenderlo, ma la mia cattiva inclinazione al male era sì
forte che senza una grazia speciale di Dio sarei caduta nell’inferno» (p. 256).
Ecco perché
il «senso del peccato» rinsalda nel cristiano i contrafforti della luce, ne
attinge lume e conforto nell’arduo cammino dell’esistenza fra le insidie
grossolane e sottili dei dubbi e delle passioni.
(1977)
da
http://www.corneliofabro.org/documento.asp?ID=646