La cesta piena di pani dolci, dall'aspetto soffice e fragrante, che il prete Fiorenzo aveva fatto recapitare al monastero di San Clemente, a Subiaco, come offerta di amicizia nel Signore, era stata
accolta con piacere e gratitudine dall'abate Benedetto e dagli altri dodici monaci.
Benedetto, colui che passerà alla storia come il padre del monachesimo occidentale e che Paolo VI proclamerà patrono d'Europa, nel giro di pochi anni aveva fondato nella zona di Subiaco circa una dozzina di monasteri ognuno abitato da dodici monaci guidati da un abate, per un totale di tredici uomini, sul modello del Signore Gesù e degli apostoli.
La fama di santità che aleggiava attorno a Benedetto aveva varcato i confini della regione sublacense per giungere fino a Roma, la città da cui, svariati anni prima, lo stesso era scappato, nauseato dalla corruzione che vi regnava, così che arrivavano ai suoi monasteri giovani dell'aristocrazia romana, anch'essi consapevoli che ciò che conta nella vita non sono tanto le glorie effimere che si possono conquistare in questo mondo, ma trovare Dio, o quantomeno, cercarLo e tentare di porsi alla Sua sequela.
La notorietà e la benevolenza di cui era circondato, però, come spesso accade, accese d'invidia non poche persone, che vedevano nella sua purezza lo specchio della loro lordura interiore.
Una di queste era il prete Fiorenzo, un sacerdote di quelli come mai dovrebbero esserne ordinati, un impostore che usava il suo abito per avere assicurata una buona posizione sociale ed economica senza dover fare troppa fatica, ma che viveva in modo completamente dissoluto e lascivo, addirittura, sembra, dilettandosi di magia e carezzando i culti pagani. Ebbene, costui fu preso da un'ira tale nei confronti di Benedetto che si sarebbe potuta estinguere solo con la sua scomparsa, in quanto tra le tante anime che il sant'uomo attraeva a lui si annoveravano anche quelle che fino a poco prima costituivano quello che si potrebbe definire un buon giro d'affari per Fiorenzo, che vedeva nei sacramenti nient'altro che un ottimo mezzo di guadagno facile.
E così, dopo tanto pensare, il prete scellerato prese l'altrettanto scellerata decisione di togliere di mezzo l'ignaro ostacolo alla prosperità della sua borsa avvelenando il pane dolce destinato all'abate, quello più grande.
Dunque, quella stessa sera, dopo cena, furono portati i pani nel refettorio e vennero distribuiti tra i monaci. Benedetto si alzò per impartire la benedizione su di essi, quando un'ombra passò sul suo viso ed egli si arrestò, la mano a mezz'aria e lo sguardo fisso su quel pane fragrante ed invitante che lo attendeva per ucciderlo. Egli conobbe tutto, d'un tratto, come gli capitava a volte. E ne fu rattristato immensamente, anche perché era la seconda volta che degli uomini consacrati a Dio tentavano di dargli la morte con del veleno a causa della sua fedeltà alla parola del Signore Gesù. Con un sospiro, chiamò il corvo che zampettava alle sue spalle, come ogni sera.
L'animale aveva, infatti, preso l'abitudine, da qualche tempo, di presentarsi alla finestra del refettorio all'ora di cena e di aspettare lì pazientemente, finché l'abate, terminato il pasto, non gli dava il permesso di entrare e di mangiare le briciole che rimanevano sulla tovaglia.
Quella volta, però, era ben altro il motivo per cui Benedetto l'aveva interpellato. Tra lo stupore degli altri monaci, egli parlò al corvo, certo che lo potesse comprendere, e gli disse: "Prendi questo pane e gettalo lontano, in un luogo talmente impervio che nessuno potrà mai trovarlo e mangiarne". Ma il corvo, che evidentemente sapeva, Dio solo sa come, cosa vi si nascondesse dentro, invece di obbedire, si mise a gracchiare e saltellare tutt'intorno, manifestando la sua contrarietà. L'abate, allora lo tranquillizzò: "Tu ora sei uno strumento che l'Onnipotente usa per evitare che questo pane possa nuocere. Puoi prenderlo, dunque, nel becco senza alcun timore: il veleno non ti farà del male". Fidandosi completamente di queste parole, il corvo all'istante afferrò il pane ben saldo col becco e volò fuori.
Sebbene San Gregorio Magno, autore dei Dialoghi, una delle poche fonti dalle quali noi attingiamo ancora oggi, dopo mille e cinquecento anni, per conoscere la vita di San Benedetto, non ci informi sul luogo in cui quel pane sia stato gettato o se poi, in seguito, nessun malcapitato gli abbia dato un morso, non c'è motivo di dubitare che il corvo, in missione per conto di Dio, avrà adempiuto egregiamente al suo compito e che, al suo ritorno, sia stato lautamente ricompensato con tante, grosse, appetitose briciole tutte per lui. Fatto sta che, da quella sera, l'uccello non abbandonò più Benedetto, quasi come un'ombra protettiva che vegliava discretamente ma costantemente su quel santo così tanto assalito dall'antico nemico.
Non lo lasciò neppure quando, poco dopo, Benedetto, in seguito ad un ulteriore attacco del solito prete, particolarmente subdolo ed infido, mirato a colpire lui attraverso la perdizione dei suoi monaci, risolse di lasciare Subiaco.
Ma poiché, come è noto, Dio scrive dritto anche sulle righe storte, fu proprio grazie a quest'ultima insidia se egli, con pochi monaci al seguito ed il fedele corvo che gli svolazzava attorno, arrivato in quel di Cassino, fondò il monastero sulla cima del monte il cui bosco, ancora nel VI sec, era sacro ad Apollo; monastero nel quale scrisse quella Regola da cui, nel modo mirabile e sorprendente in cui è solita operare la Provvidenza, trasse forma la nostra Europa.
Che poi, oggi, la stessa si vergogni e misconosca tanto padre, beh, come si suol dire, è un'altra triste storia...
La statua di San Benedetto a Norcia, unico monumento rimasto integro del terremoto dell'ottobre 2016. |
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