lunedì 30 gennaio 2017

Un Passaggio da Thomas Stearns Eliot




Da Thomas Stearns Eliot, l’inizio del primo "Coro dalla Rocca", nella traduzione di Roberto Sanesi:
"Si leva a volo l’Aquila alla sommità del Cielo;
Il Cacciatore coi cani segue il suo percorso.
O rivoluzione perpetua di Stelle configurate,
O ricorrenza perpetua di stagioni determinate,
O mondo di primavera e d’autunno, di nascita e di morte!
Il ciclo senza fine dell’idea e dell’azione,
L’invenzione infinita, l’esperimento infinito,
Portano conoscenza del moto, non dell’immobilità;
Conoscenza del linguaggio, ma non del silenzio;
Conoscenza delle parole, e ignoranza del Verbo.
Tutta la nostra conoscenza ci porta più vicini alla nostra ignoranza,
Tutta la nostra ignoranza ci porta più vicino alla morte.
Ma più vicino alla morte non più vicini a Dio.
Dov’è la Vita che abbiamo perduto vivendo?
Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo?
Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?

I cicli del Cielo in venti secoli
Ci portano più lontani da Dio e più vicini alla Polvere.
Viaggiavo verso Londra, alla City che è preda del tempo,
Là dove il Fiume scorre con flutti stranieri.
Laggiù mi dissero: abbiamo troppe chiese.
E troppo poche osterie. Laggiù mi dissero:
Se ne vanno i parroci. Gli uomini non hanno bisogno della Chiesa
Nel luogo in cui lavorano, ma dove passano le domeniche.
In città non abbiamo bisogno di campane:
Che sveglino i sobborghi.
Camminai fino ai sobborghi, e là mi dissero:
sei giorni lavoriamo, il settimo giorno vogliamo andare in gita
Con l’automobile fino a Hindhead, o a Maidenhead.
Se il tempo è brutto restiamo a casa a leggere i giornali.
Nei distretti industriali mi dissero
Delle leggi economiche.
Nelle campagne ridenti sembrava
Vi fosse solo posto per i picnic.
E sembra che la Chiesa non sia desiderata
Nelle campagne, e nemmeno nei sobborghi; in città
Solo per importanti matrimoni."
(T.S. Eliot Cori da La Rocca ed. Rizzoli
traduzione Roberto Sanesi)

sabato 28 gennaio 2017

Forza Madonnina di San Luca, olè!

Lo stadio Dall'Ara ed, in cima al colle, il santuario di San Luca
Lo stadio Dall'Ara di Bologna, edificato negli anni Venti con il nome di Littorale, sorge ai piedi del colle della Guardia, dove svetta il santuario della Madonna di San Luca, la cui icona protegge e veglia sulla città da secoli, specie dopo quello che viene ricordato come il "miracolo della pioggia".

Brevemente, per  chi non conosce la storia:
correva l'anno 1433, era vescovo il beato Niccolò Albergati, ed una pioggia incessante minacciava i campi. Per scongiurare una funesta e temibile carestia, su iniziativa del giureconsulto Graziolo Accarisi, si fece scendere l'icona della Madonna con il Bambino dal colle, portandola in solenne processione per le strade della città. Dopo qualche giorno, le pubbliche suppliche ottennero la Grazia impetrata: la pioggia cessò ed i raccolti furono salvi. Da allora, ogni anno, per voto cittadino, l'iniziativa viene ripetuta, con copiosa partecipazione di popolo e delle autorità civili.

Nonostante questi nostri tempi ed il brodo di coltura emiliano, mirabilmente resiste una sentita, profonda, diffusa e generalizzata devozione per la Madonna di San Luca da parte dei bolognesi. Tutti, prima o poi, anche gli ateacci e gli anticlericali più incalliti, sollevano uno sguardo furtivo (ben attenti a che nessuno li osservi) verso il santuario.
Parve, quindi, del tutto consono e naturale denominare la parte del costruendo stadio che lambisce la strada che porta al santuario "Curva San Luca" e mai nessuno, kompagni o diversamente religiosi compresi, hanno avuto nulla da eccepire.

Arpad Weisz
Questo fino a poco fa, quando ai novatori della giunta comunale guidata dal sindaco Virginio Merola è venuta la bella idea di intitolare la curva San Luca all'ungherese Arpad Weisz, giocatore ed allenatore che portò la squadra del Bologna a vincere due scudetti e che morì nel 1944 ad Auschwitz. Ieri, 27 gennaio, in occasione delle celebrazioni per la Giornata della Memoria, l'assessore allo sport Matteo Lepore ha ufficialmente ed orgogliosamente annunciato, alla presenza di Daniele de Paz, presidente della Comunità ebraica di Bologna, che il cambio del nome verrà sancito a maggio, con una imponente cerimonia pubblica.
Motivo? Ovvio, un doveroso omaggio ad un grande del calcio nostrano e contemporaneamente un monito ed un contributo per tenere vivo il ricordo dello sterminio degli ebrei durante l'ultimo conflitto mondiale.

Chi potrebbe mai contestare la bontà delle suddette ragioni?
Ma perchè, ci chiediamo noi, una volta che sarebbe veramente d'uopo un et ...et  , ci troviamo davanti ad un aut..aut ?
Perchè per onorare la memoria di un senz'altro bravissimo calciatore ed allenatore che tanto lustro ha dato al Bologna calcio, di una sventurata vittima della positivistica e luciferina follia nazista bisogna per forza eliminare, cancellare, scacciare da casa sua un toponimo, un riferimento, un nome che risuona da tempo immemorabile nel cuore di ogni bolognese? Non si poteva lasciare San Luca in santa pace, lì dove la sensibilità popolare l'ha messo fin da subito ed intitolare al sig. Weisz, che so, il settore distinti, o porre una lapide, un cippo, o uno dei tanti ed efficacissimi monumenti che gli uomini nei millenni hanno elaborato perchè la memoria di qualcosa o qualcuno venisse ribadita?
Ed è proprio questa abbondanza di alternative possibili, fattibili e smaccatamente, facilmente individuabili ma volutamente ignorate che, come si suol dire, puzza; ed è una puzza ben nota, il cui modus operandi è annidarsi, strisciando, tra le parole più condivisibili , ammorbare le intenzioni più nobili, al punto da imbrattarle irrimediabilmente e renderle parodistiche e ripugnanti menzogne.
 A pensar male si farà anche peccato, ma spesse volte, purtroppo, ci si prende.

Reazioni nel mondo calcistico locale?
L'ex calciatore del Bologna Marco Di Vaio, oggi dirigente sportivo della società Bologna Calcio, prendendo diplomaticamente tempo, mentre si dichiara orgoglioso di appoggiare iniziative contro le discriminazioni, rimette la decisione ultima in mano ai tifosi ed alla società stessa.
E la Curia?
 Il vescovo ausiliare emerito, monsignor Ernesto Vecchi, il quale, probabilmente fiutando un pò di quella puzza di cui sopra, un paio di settimane fa, nell' officiare i funerali di un altro grande del calcio felsineo, Ezio Pascutti, aveva ammonito: "Non si tocchi il nome della curva di San Luca", è tornato anche oggi a ribadire il concetto, aggiungendo un sibillino ma quanto mai opportuno: " Se accosti qualcuno a San Luca, la Madonna se lo mangia...".
Capito, assessore Lepore, e compagni?

E noi, in coro, in un grande e potente coro da stadio, di quelli in cui mille e più voci si levano all'unisono, con il cuore in palpitante tripudio e le emozioni sulla punta della lingua, in un tifo sfegatato per la nostra inarrivabile, ineguagliabile, impareggiabile fuoriclasse che abita sopra il colle, intoniamo ed intoneremo fino a che il coro non giungerà sul tavolo dell' assessore a scompigliare tutte le sue carte: "Forza Madonnina olè, forza Madonnina olè, forza Madonnina, forza olè, forza Madonnina olè!"

Icona della Madonna di San Luca


martedì 24 gennaio 2017

Ferrara: furto di ostie consacrate. Un avviso ed un appello

A proposito di rimettere in continuazione in croce Nostro Signore   (vedi post precedente)....


Apprendiamo dal Movimento Liturgico Benedettiano di Ferrara
e diffondiamo:


In seguito al furto sacrilego della pisside contenente ostie consacrate, avvenuto nella chiesa di Santa Chiara (Fe), sarà officiata una


Santa Messa di riparazione in rito romano antico

Sabato 28 gennaio 2017
presso la
Basilica parrocchiale di
Santa Maria in Vado 

seguita da un Atto di riparazione comunitario all'altare del Miracolo Eucaristico del Preziosissimo Sangue.

Si rivolge a tutti un caloroso appello alla partecipazione o alla preghiera in riparazione.

Sua Eminenza l'Arcivescovo Mons. Luigi Negri celebrerà un'altra S. Messa di riparazione in Santa Chiara alle ore 18, 30 (novus ordo)

Qui il link della cronaca relativa al furto:

Un passaggio dal Concilio di Trento e da 2 S. Pietro ed Ebrei





"Ogni singolo peccatore è realmente causa e strumento delle sofferenze del divino Redentore… coloro che più spesso ricadono nel peccato… crocifiggono nuovamente, per quanto sta in loro, il Figlio di Dio e lo scherniscono."

(dal Concilio di Trento)


in evidente parallelo con:

2 Pietro 2, 19-22


"Perché uno è schiavo di ciò che l'ha vinto. 20 Se infatti, dopo aver fuggito le corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del Signore e salvatore Gesù Cristo, ne rimangono di nuovo invischiati e vinti, la loro ultima condizione è divenuta peggiore della prima. 21 Meglio sarebbe stato per loro non aver conosciuto la via della giustizia, piuttosto che, dopo averla conosciuta, voltar le spalle al santo precetto che era stato loro dato. 22 Si è verificato per essi il proverbio:
Il cane è tornato al suo vomito
e la scrofa lavata è tornata ad avvoltolarsi nel
brago."




e cita letteralmente Ebrei 6

 

"1 Perciò, lasciando da parte l'insegnamento iniziale su Cristo, passiamo a ciò che è più completo, senza gettare di nuovo le fondamenta della rinunzia alle opere morte e della fede in Dio, 2 della dottrina dei battesimi, dell'imposizione delle mani, della risurrezione dei morti e del giudizio eterno. 3 Questo noi intendiamo fare, se Dio lo permette.
4 Quelli infatti che sono stati una volta illuminati, che hanno gustato il dono celeste, sono diventati partecipi dello Spirito Santo 5 e hanno gustato la buona parola di Dio e le meraviglie del mondo futuro. 6 Tuttavia se sono caduti, è impossibile rinnovarli una seconda volta portandoli alla conversione, dal momento che per loro conto crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio e lo espongono all'infamia. 7 Infatti una terra imbevuta della pioggia che spesso cade su di essa, se produce erbe utili a quanti la coltivano, riceve benedizione da Dio; 8 ma se produce pruni e spine, non ha alcun valore ed è vicina alla maledizione: sarà infine arsa dal fuoco!


 
9 Quanto a voi però, carissimi, anche se parliamo così, siamo certi che sono in voi cose migliori e che portano alla salvezza. 10 Dio infatti non è ingiusto da dimenticare il vostro lavoro e la carità che avete dimostrato verso il suo nome, con i servizi che avete reso e rendete tuttora ai santi. 11 Soltanto desideriamo che ciascuno di voi dimostri il medesimo zelo perché la sua speranza abbia compimento sino alla fine, 12 e perché non diventiate pigri, ma piuttosto imitatori di coloro che con la fede e la perseveranza divengono eredi delle promesse."

Interessante articolo sulla pilotatissima "marcia delle donne" (?) contro Trump, di Silvia Valerio

Riprendiamo qui un pezzo molto attuale su queste pasionarie,
un po' scurrile forse per un blog devoto come il nostro,
ma efficace:

da "Il Barbadillo"



"Usa. La marcia fucsia contro Trump"
di Silvia Valerio


"Ti svegli morbida e serena. Il sole splende, il clima è mite e tutto congiura a renderti iperfemminile. Apri la finestra e potresti avere un istinto materno nei confronti del piccione appollaiato sul davanzale.
Poi lo fai, l’errore. 
Dai giornali e dal web apprendi che nelle ultime ore, in varie città del mondo, ma soprattutto nella capitale americana Washington, sono state organizzate manifestazioni di piazza contro il neopresidente Trump. Per essere filologici, si tratta di marce. 

Nelle fotografie si vedono donne, ma non solo, che camminano inalberando cartelloni con scritte del tipo: Power to the pussy, My pussy my choice, Boobs not Bombs, e poi immagini inquietanti: organi sessuali femminili dentati o antropomorfizzati, per non parlare del vero simbolo della lotta, un berrettino fucsia acceso con due specie di orecchie pendenti, a rappresentare l’utero femminile. Effettivamente, già indossarli è un atto rivoluzionario.

Ritratti ordinari – tizi che pagano alla cassa tazze da colazione e felpe con la scritta Not my president, – si alternano a immagini strazianti: 
afflitti di varie età che firmano ringraziamenti sopra ritratti di Obama disegnati a pennarello e uomini seduti per terra accanto al cartellone  Michelle 2020.  Fuck the Cistem, Get your rosaries off my ovaries. 

E ci sono ragazze, certo, insieme a donne che di marce ne dovrebbero fare decisamente di più, gente che si avvolge in bandiere arcobaleno, persone di sesso indistinto, famigliole, uomini (almeno in teoria) e, come racconta una giornalista italiana in un articolo commosso: 
“professoresse, immigrate, lesbiche, transgender, clandestine, ex detenute, vittime di stupri, attrici, avvocatesse, sindache (per la gioia della Boldrini n.d.a), senatrici, poetesse, musiciste, suore.” 

La giornalista italiana e le colleghe ormai hanno oltrepassato la fase depressiva del non-più-Obama, 
tutte prese dal climax orgasmico del  Fare Rete per i Diritti di Tutti,  dello Sdegno (un franco consiglio agli amici maschi che vogliano rimorchiare una radical chic: nella tasca dei jeans, oltre alle solite cose, portatevi anche un po’ di Sdegno, ha un effetto fantastico sulla categoria), e  a metà tra Federico Moccia, Osho e ciclostilati da occupazione sessantottina, 
scrivono commenti in cui si parla del  Resistere,  dell’Orgoglio di Quello che sono Capaci di fare le Donne,  del Valicare Razze, Generazioni, Religioni, Orientamenti sessuali e chi più ne ha più ne metta. 

Io e te tre metri sopra Obama.

Poi, sì, qualche cronista particolarmente ispirato piazza pure a corredo degli articoli foto aeree di vent’anni fa, per rendere il tutto più solenne e imperiale – ma, si sa, l’Idea vuole persone visionarie.

Sul palco americano, a un certo punto, arriva anche Madonna. Per qualche pompino? Direte voi. Ma no, a quello non ci pensa più! 
Pensa a combattere contro l’ingiustizia. “La rivoluzione inizia da qui”, grida lei, “la rivoluzione dell’amore”, determinata e incazzata peggio del solito, e mentre parla di vita, ribellione, tirannia, pericolo, emarginazione, i giornalisti riprendono ogni mossa, ogni nota della canzone ‘Express yourself’, ogni gesto del braccio, anche il “fuck you” e il “Donald Trump, go suck a dick” accidentali che mandano in diretta in mondovisione costringendo poi la collega in redazione a discostarsi graziosamente dal particolare gergo artistico.

C’è chi, come Gloria Steinam, ha uscite creative davvero in grande: “Trump, se obbligherai i musulmani a registrarsi perché siano schedati, sappi che ci registreremo tutti come musulmani”.

C’è chi, testardo, non perde occasione per minacciare Melania Trump di rimanere senza stylist.

E c’è qualche confusa che parla di tutela delle differenze. 
Perché nella girandola colorata della marcia, evidentemente, non è tanto importante essere logici quanto farsi sentire: 

quindi si parla insieme di amore e di aborto, di diritti dei gay e di libertà della donna (e la maternità surrogata?), di rifiuto della tirannia e dell’America che deve ricominciare a pensare, di sanità, di guerra, di pace e probabilmente anche del surriscaldamento globale e dell’estinzione del lupo.

Finché, all’imbrunire, tra scritte, disegni e vagine che spuntano da ogni dove, il monumento equestre di Thomas Square sembra il cancello di un concerto di Justin Bieber.  

Sui social network i commenti degli italiani medi si sprecano: “Anche io ci sono!” “Che cosa fantastica!” “La bellezza!”

Insomma, il fatto che le persone siano pronte a muoversi, agire e rischiare per le cose importanti suscita davvero tante emozioni. Infatti poi, senza sapere bene perché, provi un sentimento finora sconosciuto. L’invidia del pene."

(Silvia Valerio)

lunedì 23 gennaio 2017

Pace




«Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra?» 


Come se Cristo dicesse: "Non pensate che io sia venuto a dare agli uomini la pace secondo la carne, la pace secondo questo mondo, la pace cioè senza nessuna regola, che li avrebbe fatti vivere in accordo col male e avrebbe assicurato loro la prosperità su questa terra. No, vi dico, non sono venuto a portare una pace di questo genere ma la divisione, una buona e salutare separazione degli spiriti e anche dei corpi.
Quindi, perché amano Dio e cercano la pace interiore, coloro che credono in me si troveranno naturalmente in disaccordo con i malvagi; si separeranno da coloro che provano a distoglierli dal progresso spirituale a dalla purezza dell'amore divino, o che si sforzano di crear loro difficoltà".


Dunque la pace spirituale, la pace interiore, la buona pace è la tranquillità dell'anima in Dio, e la concordia secondo l'ordine giusto. Cristo è venuto a portare questa pace prima di ogni altra cosa...


Dionigi il Certosino, monaco.
Commento sul Vangelo di Luca, Op. omnia 12,72



giovedì 19 gennaio 2017

Senza tregua




Cosa, mi chiedo, cosa aspettano ancora i "pastori" a liberarsi delle zavorre degli idoli moderni e ad invitare i fedeli a supplicare pubblicamente e collettivamente sotto la loro guida l'Onnipotente, affinchè le nostre povere terre martoriate dell'Italia centrale possano  tornare a respirare?
 Quanti morti, quante devastazioni, quanti scenari apocalittici, quante lacrime di coccodrillo, frasi fatte, raccolte fondi, dichiarazioni di buoni propositi ancora?
Il nostro cuore piange; piange le creature morte, le storie spezzate, le comunità devastate, la fatica vanificata, la tenacia piegata.


                                               Sant'Emidio d'Ascoli, orate pro nobis.

Se Gesù fosse nato 1000 volte




"Anche se Gesù fosse nato mille volte a Betlemme, 

ma non nel vostro cuore, 

sareste ugualmente perduti.
In verità, la Parola eterna 

è sempre pronta a nascere…. Dove? 

In un’anima perduta in se stessa. 

Solo colui che è rinato in una vita totalmente nuova 

può varcare la porta della beatitudine.
Oh uomo, domandi dove si trova il trono di Dio? 

Esso è là dove Dio rinasce in te… come suo Figlio. 

Se tu rinasci da Dio, cioè lo fai rinascere in te, 

tu esci da te ed Egli entra in te".

Angelo Silesio

da


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cfr. anche 

Atti 7, 48-51 




 48 Ma l'Altissimo non abita in costruzioni fatte da mano d'uomo, come dice il Profeta:
49 Il cielo è il mio trono
e la terra sgabello per i miei piedi.
Quale casa potrete edificarmi, dice il Signore,
o quale sarà il luogo del mio riposo?
50 Non forse la mia mano ha creato tutte queste cose?
51 O gente testarda e pagana nel cuore e nelle orecchie*, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. 

(*lett. : duri di cervice e incirconcisi di cuore e d'orecchie) 

Fatti e detti di S. Antonio Abate




Fatti e Detti di S. Antonio Abate

1. Un giorno il santo abba Antonio, mentre dimorava nel deserto, fu preso da scoraggiamento e da grande tenebra nei pensieri. E diceva a Dio: «Signore, voglio essere salvato, ma i pensieri me lo impediscono. Che potrò fare nella mia afflizione? Come posso essere salvato?». Sporgendosi un poco, Antonio vede un altro come lui, che sta seduto e lavora, poi si alza dal lavoro e prega, poi, di nuovo si siede e intreccia la corda, poi, di nuovo, si alza per pregare. Era un angelo del Signore inviato a correggere Antonio e a rassicurarlo. E udì l’angelo che diceva: «Fa’ così e sarai salvo». Come udì queste parole, fu preso da grande gioia e coraggio, così fece e si salvò.


2. Abba Antonio, scrutando l’abisso dei giudizi di Dio, chiese: «Signore, come mai alcuni muoiono in giovane età, altri vecchissimi? E perché alcuni sono poveri e altri sono ricchi? E come mai degli ingiusti sono ricchi e dei giusti sono in miseria?». E giunse a lui una voce che disse: «Antonio, bada a te stesso. Questi giudizi spettano a Dio e non guadagni nulla a saperli». 

3. Un tale interrogò abba Antonio. Gli disse: «Che cosa devo fare per piacere a Dio?». L’Anziano gli rispose: «Fa’ quello che io ti ordino: dovunque tu vada, tieni sempre Dio davanti ai tuoi occhi e qualunque cosa tu faccia, appoggiati sempre sulla testimonianza delle sante Scritture; in qualsiasi posto abiti, non andartene presto. Osserva questi tre precetti e sarai salvo». 

4. Disse abba Antonio ad abba Poemen: «Questa è la grande fatica dell’uomo: gettare su di sé il proprio peccato davanti a Dio e aspettarsi la tentazione fino all’ultimo respiro». 

5. Disse ancora: «Nessuno, se non avrà provato la tentazione, potrà entrare nel Regno dei cieli, poiché, disse, togli le tentazioni e nessuno si salverà». 

6. Abba Pambo chiese ad abba Antonio: «Che debbo fare?». Gli disse l’Anziano: «Non confidare nella tua giustizia, non preoccuparti delle cose che passano, domina la lingua e il ventre». 

7. Disse abba Antonio: «Vidi tutte le reti del Nemico stese sulla terra e gemendo dissi: «Chi potrà sfuggire?». E udii una voce che mi disse: «L’umiltà». 
 

8. Disse ancora: «Alcuni rovinano il loro corpo con l’ascesi, ma poiché mancano di discernimento si allontanano da Dio». 

9. Disse ancora: «Dal prossimo ci vengono la vita e la morte. Perché se guadagniamo il fratello, guadagniamo Dio, ma se scandalizziamo il fratello, pecchiamo contro Cristo».

10. Disse ancora: «Come i pesci muoiono se restano a lungo all’asciutto, così i monaci se indugiano fuori dalla cella o si trattengono tra gente del mondo, svigoriscono l’intensità della loro pace con Dio. È necessario dunque che come il pesce si affretta a ritornare nel mare, così anche noi ci affrettiamo a ritornare nella cella, perché non accada che indugiando all’esterno, dimentichiamo di custodire l’interno». 

11. Disse ancora: «Chi dimora nel deserto e cerca la pace, è liberato da tre guerre: quella dell’udito, della lingua e degli occhi. Gliene resta una sola: quella del cuore». 

13. Nel deserto vi era un tale che cacciava belve feroci e vide abba Antonio che scherzava con i fratelli. L’Anziano voleva fargli capire che bisogna, a volte, accondiscendere ai fratelli e gli disse: «Metti una freccia nel tuo arco e tendilo». Quello così fece. Gli disse: «Tendilo ancora» e quello lo tese. Gli disse di nuovo: «Tendilo». Gli disse il cacciatore: «Se lo tendo troppo, l’arco si spezza». Gli disse l’Anziano: «Così avviene anche nell’opera di Dio. Se con i fratelli tendiamo l’arco oltre misura, si spezzano presto. Occorre, dunque, di tanto in tanto, accondiscendere ai fratelli». A queste parole il cacciatore fu preso da compunzione e se ne andò molto edificato dall’Anziano. E anche i fratelli ritornarono nelle loro dimore fortificati. 

14. Abba Antonio sentì parlare di un giovane monaco che aveva compiuto un prodigio lungo la strada: aveva visto degli anziani che viaggiavano ed erano stanchi e aveva ordinato a degli asini di venire e di portare gli anziani da Antonio. Gli anziani riferirono la cosa ad abba Antonio ed egli disse loro: «Mi sembra che questo monaco sia una nave carica di tesori, ma non so se arriverà in porto».  Dopo un certo tempo abba Antonio incominciò improvvisamente a piangere, a strapparsi i capelli e a lamentarsi. I suoi discepoli gli chiesero: «Abba, perché piangi?» e l’Anziano disse: «E appena caduta una grande colonna della chiesa intendeva parlare del giovane monaco ma andate da lui, disse, e vedrete che cosa è accaduto». Andarono, dunque, i suoi discepoli e trovarono il monaco seduto su una stuoia che piangeva il peccato commesso. Vedendo i discepoli dell’Anziano disse:«Dite all’Anziano che supplichi Dio di concedermi solo dieci giorni e spero di farne penitenza». Dopo cinque giorni morì.

15. Un monaco fu lodato dai fratelli presso abba Antonio; Antonio lo accolse presso di sé e lo mise alla prova per vedere se sopportava il disprezzo. Visto che non lo sopportava, gli disse: «Somigli a un villaggio ben adorno sul davanti, ma saccheggiato dai ladri sul retro».
 

16. Un fratello disse ad abba Antonio: «Prega per me». Gli rispose l’Anziano: «Non posso aver compassione di te e neppure Dio l’avrà, se tu stesso non ti sforzi nel supplicare Dio».

17. Una volta alcuni anziani andarono a trovare abba Antonio e abba Giuseppe era con loro. L’Anziano voleva metterli alla prova, propose una parola delle Scritture e, a partire dal più giovane, cominciò a chiedere che cosa significasse quella parola. E ciascuno rispondeva secondo le sue capacità. Ma l’Anziano diceva a ciascuno: «Non hai ancora trovato». Alla fine chiese ad abba Giuseppe: «E tu, quale dici che sia il significato di questa parola?». Gli rispose: «Non so». Disse allora abba Antonio: «Davvero abba Giuseppe ha trovato la via, poiché ha detto: "Non so"».

18. Alcuni fratelli partirono da Scete per far visita ad abba Antonio. Saliti sulla nave per andare da lui, trovarono un anziano che pure voleva recarsi là. I fratelli non lo conoscevano. Seduti nella barca discutevano sulle parole dei padri, sulle Scritture e anche dei loro lavori. Ma l’anziano taceva; giunti al porto, scoprirono che anche l’anziano si recava da abba Antonio.

Come giunsero da lui, disse loro: «Avete trovato una buona compagnia in questo anziano». E all’anziano disse: «Ti sei trovato con dei buoni fratelli, abba». Disse l’anziano: «Sono buoni, ma la loro casa è priva di porta e chiunque vuole, può entrare nella stalla e sciogliere l’asino». Così disse perché dicevano qualsiasi cosa salisse alla loro bocca.

martedì 17 gennaio 2017

17 Gennaio - S. Antonio Abate




Coma, Egitto, 250 ca. – Tebaide (Alto Egitto), 17 gennaio 356

S. Antonio Abate è uno dei più illustri eremiti della storia della Chiesa. Nato a Coma, nel cuore dell'Egitto, intorno al 250, a vent'anni abbandonò ogni cosa per vivere dapprima in una plaga deserta e poi sulle rive del Mar Rosso, dove condusse vita anacoretica per più di 80 anni: morì, infatti, ultracentenario nel 356. Già in vita accorrevano da lui, attratti dalla fama di santità, pellegrini e bisognosi di tutto l'Oriente. Anche Costantino e i suoi figli ne cercarono il consiglio. La sua vicenda è raccontata da un grande discepolo, sant'Atanasio, che contribuì a farne conoscere l'esempio in tutta la Chiesa. Per due volte lasciò il suo romitaggio. La prima per confortare i cristiani di Alessandria perseguitati da Massimino Daia. La seconda, su invito di Atanasio, per esortarli alla fedeltà verso il Conciliio di Nicea. Nell'iconografia è raffigurato circondato da donne procaci (simbolo delle tentazioni) o animali domestici (come il maiale), di cui è popolare protettore.

Patronato: Eremiti, Monaci, Canestrai

Etimologia: Antonio = nato prima, o che fa fronte ai suoi avversari, dal greco

Emblema: Bastone pastorale, Maiale, Campana, Croce a T


Martirologio Romano: Memoria di sant’Antonio, abate, che, rimasto orfano, facendo suoi i precetti evangelici distribuì tutti i suoi beni ai poveri e si ritirò nel deserto della Tebaide in Egitto, dove intraprese la vita ascetica; si adoperò pure per fortificare la Chiesa, sostenendo i confessori della fede durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano, e appoggiò sant’Atanasio nella lotta contro gli ariani. Tanti furono i suoi discepoli da essere chiamato padre dei monaci.


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Caposcuola del Monachesimo
 
Dopo la pace costantiniana, il martirio cruento dei cristiani diventò molto raro. A questa forma eroica di santità dei primi tempi del cristianesimo, subentrò un cammino di santità professato da una nuovo stuolo di cristiani, desiderosi di una spiritualità più profonda, di appartenere solo a Dio e quindi di vivere soli nella contemplazione dei misteri divini.
Questo fu il grande movimento spirituale del Monachesimo, che avrà nei secoli successivi varie trasformazioni e modi di essere, dall’eremitaggio alla vita comunitaria. Espandendosi dall’Oriente all’Occidente, divenne la grande pianta spirituale su cui si è poggiata la Chiesa, insieme alla gerarchia apostolica.
Anche se probabilmente fu il primo a instaurare una vita eremitica e ascetica nel deserto della Tebaide, sant’Antonio ne fu senz’altro l’esempio più stimolante e noto, ed è considerato il caposcuola del Monachesimo.
Conoscitore profondo dell’esperienza spirituale di Antonio, fu sant’Atanasio (295-373) vescovo di Alessandria, suo amico e discepolo, il quale ne scrisse la biografia, fonte principale di ciò che sappiamo di lui.


La scelta di una vita penitente
 
Antonio nacque verso il 250 da una agiata famiglia di agricoltori nel villaggio di Coma, attuale Qumans in Egitto. Verso i 18-20 anni rimase orfano dei genitori, con un ricco patrimonio da amministrare e con una sorella minore da educare.
Attratto dall’ammaestramento evangelico «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi», e sull’esempio di alcuni anacoreti che vivevano nei dintorni dei villaggi egiziani, in preghiera, povertà e castità, Antonio volle scegliere questa strada. Vendette dunque i suoi beni, affidò la sorella a una comunità di vergini e si dedicò alla vita ascetica davanti alla sua casa e poi al di fuori del paese.
Alla ricerca di uno stile di vita penitente e senza distrazione, chiese a Dio di essere illuminato. Vide poco lontano un anacoreta come lui, che seduto lavorava intrecciando una corda, poi smetteva, si alzava e pregava; subito dopo, riprendeva a lavorare e di nuovo a pregare. Era un angelo di Dio che gli indicava la strada del lavoro e della preghiera che, due secoli dopo, avrebbe costituito la base della regola benedettina «Ora et labora» e del Monachesimo Occidentale.
Parte del suo lavoro gli serviva per procurarsi il cibo e parte la distribuiva ai poveri. Sant’Atanasio asserisce che pregasse continuamente e che fosse così attento alla lettura delle Scritture che la sua memoria sostituiva i libri.


Le sue tentazioni
 
Dopo qualche anno di questa esperienza, in piena gioventù cominciarono per lui durissime prove. Pensieri osceni lo tormentavano, l’assalivano dubbi sulla opportunità di una vita così solitaria, non seguita dalla massa degli uomini né dagli ecclesiastici. L’istinto della carne e l’attaccamento ai beni materiali, che aveva cercato di sopire in quegli anni, ritornavano prepotenti e incontrollabili.
Chiese dunque aiuto ad altri asceti, che gli dissero di non spaventarsi, ma di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui. Gli consigliarono anche di sbarazzarsi di tutti i legami e di ogni possesso materiale, per ritirarsi in un luogo più solitario.
Così, ricoperto appena da un rude panno, Antonio si rifugiò in un’antica tomba scavata nella roccia di una collina, intorno al villaggio di Coma. Un amico gli portava ogni tanto un po’ di pane; per il resto, si doveva arrangiare con frutti di bosco e le erbe dei campi.
In questo luogo, alle prime tentazioni subentrarono terrificanti visioni e frastuoni. In più, attraversò un periodo di terribile oscurità spirituale: lo superò perseverando nella fede, compiendo giorno per giorno la volontà di Dio, come gli avevano insegnato i suoi maestri.
Quando alla fine Cristo gli si rivelò l’eremita chiese: «Dov’eri? Perché non sei apparso fin da principio per far cessare le mie sofferenze?». Si sentì rispondere: «Antonio, io ero qui con te e assistevo alla tua lotta…».


Sulle montagne del Pispir
 
Scoperto dai suoi concittadini, che come tutti i cristiani di quei tempi, affluivano presso gli anacoreti per riceverne consiglio, aiuto, consolazione, ma nello stesso tempo turbavano la loro solitudine e raccoglimento, allora Antonio si spostò più lontano verso il Mar Rosso. Sulle montagne del Pispir c’era una fortezza abbandonata, infestata dai serpenti, ma con una fonte sorgiva: Antonio vi si trasferì nel 285 e vi rimase per 20 anni.
Due volte all’anno gli calavano dall’alto del pane. Seguì in questa nuova solitudine l’esempio di Gesù, che guidato dallo Spirito si ritirò nel deserto «per essere tentato dal diavolo». Era infatti comune convinzione che unicamente la solitudine, permettesse all’uomo di purificarsi da tutte le cattive tendenze, personificate nella figura biblica del demonio e diventare così una nuova creatura.


Il discernimento degli spiriti
 
Certamente solo persone psichicamente sane potevano affrontare un’ascesi così austera come quella degli anacoreti. Alcune finivano per andare fuori di testa, scambiando le proprie fantasie per illuminazioni divine o tentazioni diaboliche.
Non era il caso di Antonio: veniva attaccato dal demonio, che lo svegliava nel cuore della notte, oppure gli dava consigli apparentemente per spronarlo a una maggiore perfezione, in realtà per spingerlo verso l’esaurimento fisico e psichico e per disgustarlo della vita solitaria. L’eremita invece resistette e acquistò, con l’aiuto di Dio, il “discernimento degli spiriti”, ossia la capacità di riconoscere le apparizioni false, comprese quelle che simulavano le presenze angeliche.


Le prime comunità di discepoli
 
Venne poi il tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi alla vita eremitica giunsero al fortino e lo abbatterono. Antonio uscì e cominciò a consolare gli afflitti, ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i nuovi discepoli.
Si formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, uno ad oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del fiume. Ogni monaco aveva la sua grotta solitaria, ubbidendo però ad un fratello più esperto nella vita spirituale. A tutti Antonio dava i suoi consigli nel cammino verso la perfezione dello spirito e l’unione con Dio.


Fuori dall’eremo per difendere i cristiani
 
Nel 307 venne a visitarlo il monaco eremita sant’Ilarione (292-372), che fondò a Gaza in Palestina il primo monastero: i due si scambiarono le loro esperienze sulla vita eremitica.
Nel 311 Antonio non esitò a lasciare il suo eremo: si recò ad Alessandria, dove imperversava la persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore romano Massimino Daia († 313), per sostenere e confortare i fratelli nella fede, desideroso lui stesso del martirio.
Forse perché incuteva rispetto e timore reverenziale anche ai Romani, fu risparmiato, ma le sue uscite dall’eremo si moltiplicarono per servire la comunità cristiana. Sostenne con la sua influente presenza l’amico vescovo di Alessandria, sant’Atanasio, che combatteva l’eresia ariana. Scrisse in sua difesa anche una lettera all’ imperatore Costantino, che non fu tenuta di gran conto, ma fu importante fra il popolo cristiano.


Nella Tebaide
 
Tornata la pace nell’impero e per sfuggire ai troppi curiosi che si recavano nel fortilizio del Mar Rosso, decise di ritirarsi in un luogo più isolato. Andò dunque nel deserto della Tebaide, nell’Alto Egitto, dove prese a coltivare un piccolo orto per il sostentamento suo e di quanti, discepoli e visitatori, si recavano da lui.
Visse nella Tebaide fino al termine della sua lunghissima vita. Poté seppellire il corpo dell’eremita san Paolo di Tebe con l’aiuto di un leone; per questo è considerato patrono dei seppellitori.
Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia. Morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto.


L’eredità spirituale
 
La sua presenza aveva attirato anche nella Tebaide tante persone desiderose di una vita più spirituale. Tanti scelsero di seguire il suo stile: così fra quei monti sorsero monasteri. Il deserto si popolò di monaci, i primi di quella moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente portarono avanti quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei tempi.
I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere. Nella Lettera 8, sant’Antonio scrisse ai suoi: «Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato».


La protezione contro l’herpes zoster
 
Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo e nello spazio, da Alessandria a Costantinopoli, fino ad arrivare in Francia, nell’XI secolo, a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
In questa chiesa affluivano a venerarne le reliquie folle di malati, soprattutto affetti da ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segale, usata per fare il pane.
Il morbo, oggi scientificamente noto come herpes zoster, era conosciuto sin dall’antichità come “ignis sacer” (“fuoco sacro”) per il bruciore che provocava. Per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e venne fondata una confraternita di religiosi, l’antico ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine de Viennois.


Il maiale, il fuoco, il “tau”
 
Il Papa accordò agli Antoniani il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade; nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento.
Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di s. Antonio” e poi “fuoco di s. Antonio”. Per questo motivo, nella religiosità popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, poi considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla. Sempre per questa ragione, è invocato contro le malattie della pelle in genere.
Nella sua iconografia compare oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, la “tau” ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino.
Una leggenda popolare, che collega i suoi attributi iconografici, narra che sant’Antonio si recò all’inferno, per contendere l’anima di alcuni morti al diavolo. Mentre il suo maialino, sgaiattolato dentro, creava scompiglio fra i demoni, lui accese col fuoco infernale il suo bastone a forma di “tau” e lo portò fuori insieme al maialino recuperato: donò il fuoco all’umanità, accendendo una catasta di legna.


La devozione popolare
 
Nel giorno della sua memoria liturgica, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici. In alcuni paesi di origine celtica, sant’Antonio assunse le funzioni della divinità della rinascita e della luce, Lug, il garante di nuova vita, a cui erano consacrati cinghiali e maialii. Perciò, in varie opere d’arte, ai suoi piedi c’è un cinghiale.
Patrono di tutti gli addetti alla lavorazione del maiale, vivo o macellato, è anche il patrono di quanti lavorano con il fuoco, come i pompieri, perché guariva da quel fuoco metaforico che era l’herpes zoster.
Ancora oggi il 17 gennaio, specie nei paesi agricoli e nelle cascine, si usano accendere i cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di sant’Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera. Le ceneri, poi raccolte nei bracieri casalinghi di una volta, servivano a riscaldare la casa e, tramite un’apposita campana fatta con listelli di legno, per asciugare i panni umidi.
Veneratissimo lungo i secoli, il suo nome è fra i più diffusi del cattolicesimo. Lo stesso sant’Antonio di Padova, proprio per indicare il suo desiderio di maggior perfezione, scelse di cambiare il nome di Battesimo con il suo. Nell’Italia Meridionale, per distinguerlo da lui, l’eremita della Tebaide è infatti chiamato “Sant’Antuono”.



da

http://www.santiebeati.it/dettaglio/22300

De la cabala al progresismo



Nel 1970 il teologo e sacerdote argentino, P. Julio Meinvielle (1905-1973) scriveva queste righe  profetiche nel suo saggio  "De la Cabala al Progresismo" (1970).

Nella Conclusione, pag 448, scrive :

 Non c’è difficoltà a riconoscere che  c’è  una  “chiesa  propaganda” che possa esser conquistata dal nemico,  convertendo così la chiesa cattolica in chiesa gnostica . Si possono avere due chiese . Una propaganda  che divulga (dottrine) attraverso vescovi, sacerdoti e teologi “propagandisti” e persino con un Pontefice di attitudine ambigua  [ attenzione, siamo nel 1970] .    
L’altra chiesa, del silenzio, con un Papa fedele a Gesù Cristo, al Suo insegnamento e con sacerdoti vescovi e fedeli che le siano obbedienti, sparsi per tutta la terra come piccolo gregge (pusillus grex) .   
Questa seconda sarebbe la Chiesa delle Promesse , diversa dalla prima chiesa che potrebbe invece errare e trarre in errore.     Ma (potrebbe verificarsi che …) uno stesso  medesimo papa potrebbe presiedere entrambe le chiese , che esteriormente  apparirebbero esser solo una .
Questo papa, con attitudini ambigue , porterebbe a mantenere l’equivoco , perché da una parte professerebbe una dottrina inattaccabile e sarebbe capo della chiesa delle promesse, dall’altra parte produrrebbe fatti equivoci e persino riprovevoli . Lui ( il papa) apparirebbe  come voler incoraggiare  la sovversione e mantenere la chiesa gnostica in quella della propaganda. L’Ecclesiologia non ha studiato sufficientemente la possibilità di una ipotesi come questa proposta. Però , pensandoci bene , la promessa di assistenza della chiesa , si riduce ad una assistenza che deve impedire all’errore di introdursi nella Cattedra Romana (di Pietro)  e nella chiesa stessa  e inoltre che la stessa chiesa non sia distrutta dai suoi nemici …”

da

http://www.maurizioblondet.it/un-pontefice-ambiguo-la-profezia-padre-julio-meinvielle-nel-1970/


lunedì 16 gennaio 2017

Un passaggio di Dostoevskij e una scultura di Paul Manship




«Vi sarà l’uomo nuovo, felice, superbo. Colui al quale sarà indifferente vivere o non vivere, quello sarà l’uomo nuovo. Colui che vincerà il dolore e la paura, sarà lui Dio. E quell’altro Dio non ci sarà più (...). Chi vincerà il dolore e la paura, quello diventerà Dio. Allora ci sarà una nuova vita, allora ci sarà un uomo nuovo, tutto sarà nuovo (…). L’uomo sarà Dio e si trasformerà fisicamente».


(Fedor Dostoevskij, "I demoni", 1873)


nell'immagine, "Prometeo", 1934, di Paul Manship,
il famoso Prometeo del Rockefeller Center, a Manhattan, NY.
Metafora attuale a triste della contemporaneità.

Al di là dell'abilità dell'artista, e del suo attraente Art Déco manierato,
si rappresenta un mito connesso alla conoscenza come fonte di salvezza, ma che in altri termini è una delle tante metamorfosi della gnosi.
 
Prometeo rubò il fuoco degli dei per portarlo al genere umano. Per punizione fu incatenato ad una montagna e ogni giorno un’aquila veniva a mangiare il suo fegato. Alla fine Ercole uccise l’aquila e liberò Prometeo.

Dal punto di vista gnostico (e massonico) Prometeo si pone come Lucifero, che ruba il sapere agli dei (come la pretesa "conoscenza del bene e del male" offerta ai progenitori) con un atto di Hybris, proclamando l'autonomia e la "libertà" assoluta dell'uomo che si autoincorona Dio:
lo vediamo imprigionato nella materia, ma agitarsi ora più che mai convinto del suo tragico scopo di portare la (falsa) luce.


Chi ha occhi per vedere...


giovedì 12 gennaio 2017

il Silenzio

 
 
Il silenzio è come un carro di fuoco che porta l'anima al cielo come fu portato il profeta Elia.
O silenzio! felicità delle anime interiori, scala del cielo, strada del regno di Dio.
O silenzio! specchio in cui il peccatore vede i suoi peccati, principio di luce, di mitezza, di umiltà.
O silenzio! porto sicuro dove si trova la tranquillità dell'anima, scuola della lettura, dell'orazione, della contemplazione, aiuto per acquistare tutte le virtù e sorgente di ogni bene.
 
(S. Giovanni Crisostomo)
 

mercoledì 11 gennaio 2017

L' "ultimo" (?) discorso d'addio di Obama e la provvisoria scomparsa dell'archivio online de "l'Unità"

Ebbene sì,

dopo vari post di spiritualità, di innalzamento dell'uomo interiore,
siamo riportati a terra da almeno 2 notizie, 
che ci vengono recate in maniera ossessiva, insistente da vari media, quindi meritano 2 parole, almeno di fastidio.

Oggi 11 gennaio 2017 s'è tenuto l'ultimo (davvero?) discorso d'addio del Presidente MAI uscente Obama. 


Ma dico: 
dopo 2 mandati finiti, terminati, strafiniti, dopo 40.000 apparizioni pubbliche Urbi et Orbi già DOPO l'elezione di Trump, 
e altri discorsi pubblici d'uscita, di fine mandato, di siamo agli sgoccioli, di ho quasi finito, di 'mo vado, di ci siamo quasi alla fine proprio, di ho raschiato il barile fin sotto,
e d'addio, 
ora ne fa un altro?


Davvero il caso di chiamarlo  "Il Lungo Addio" , ma non nel senso del romanzo di Raymond Chandler o del film di lì estratto di Robert Altman.

E poi dicono che non c'era nulla di pilotato......Si DEVE, Oportet, Necesse Est amare Obama...
ma per favore.....

E ci "rassicura" su per giù con queste parole: "sarà con noi tutti i giorni, fino alla fine dell'età presente."

(nientepopodimeno...
eppure a me questa frase ricorda qualcosa...)

________

L'altra questione arriva dal web: chi ha avuto qualche conoscenza a sinistra, ha già appreso da inizio anno tramite bombardamento di email che sono in lutto per la scomparsa (provvisoria) dell'archivio online di quel grottesco "giornale" (....) "L'Unità", che rientra nell'ampia crisi della testata che perdura da anni, e ora vive un altro periodo no.

Al di là del fatto che a me pare una buona notizia,
voglio ricordare una campagna che L'Unità lanciò anni fa.

Dopo aver tanto predicato sulla "dignità della donna", di non strumentalizzazione del corpo della donna,  (ma solo in senso anti Mediaset e anti caso Ruby, non per altro), di "superiorità morale",
tentò di rilanciare la testata con questa campagna di bassa lega, che a proposito di dignità o strumentalizzazione della donna e superiorità morale aveva ben poco da insegnare a chicchessia:


 
E dopo queste, possiamo tornare alla spiritualità, dove stavamo meglio fin da subito.

Un'Omelia




In nomine Patri, et Filii, et Spiritus Sancti.

Carissimi fedeli, l'unico scopo della vita umana è la nostra santificazione, per questo siamo stati creati, per nient'altro che questo.

Il Signore ci da ottanta o novanta anni di vita, normalmente, solo per questo.

Se noi arriviamo alla fine dei nostri giorni e non siamo ancora santi, abbiamo fallito.

Cosa è la Santità?

La santità è la perfezione della Carità, ossia, la perfezione dell'Amore sovrannaturale,  

 nel senso assoluto dei termini la santità, la perfezione della Carità, la perfezione dell'Amore sovrannaturale è solo Dio stesso, Dio è la santità, Dio è la Carità, e Dio che è la santità e la Carità ci comanda di essere Santi anche noi: "siate Santi, perchè Io sono Santo", dice il Signore quattro volte nel Libro del Levitico.

Ma cosa è la santità per noi? Cosa è la perfezione della Carità per gli uomini?

Nostro Signore Gesù Cristo + risponde: "nessun uomo ha un amore più grande di questo, di dare la sua vita per i suoi amici".


Parla della santità, parla della perfezione dell'amore per un uomo, per noi, esprime la santità in termini di quell'atto che Lui ha compiuto da uomo per salvare il mondo. Questa è dunque la santità per noi: dare la nostra vita per i nostri amici.

Per quali amici? Per Dio stesso, perché Dio è il nostro più grande, più caro e amorevole Amico, è in un certo senso il nostro unico Amico, perché Lui ci ha creati, ci conserva in esistenza, ci ha dato e ci da tutto ciò che siamo e che abbiamo; ci ha redenti con la Sua Passione e la Sua Morte e ci vuol dare tutto a noi, cioè Se Stesso e per sempre.

Dobbiamo, dunque, dare la nostra vita per Lui in primo luogo e in assoluto, e poi dobbiamo dare la nostra vita per il nostro prossimo, questo in secondo luogo e in modo relativo, perchè amiamo il prossimo solo in Dio e a causa di Dio, questo difatti è il soggetto del Comandamento nuovo del Signore: che vi amiate gli uni e gli altri, come Io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri.

Questa stessa perfezione dell'amore viene insegnata in due altri testi particolari della Sacra Scrittura, il primo testo è: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze e il prossimo come te stesso", 

il secondo testo è quello dei Dieci Comandamenti di cui i primi tre stabiliscono l'amore per Dio e gli altri sette stabiliscono l'amore per il prossimo: chi mi ama - dice il Signore - tiene i miei Comandamenti.

Per spiegare meglio ciò che sono i Dieci Comandamenti bisogna sapere che non solo vietano ciò che è peccato, ma che anche ci incitano alla perfezione della Carità.

E difatti lo scopo della vita umana non è solo di evitare il peccato, soprattutto il peccato mortale per poter raggiungere il Cielo, bensì di perfezionarci, come ho detto all'inizio di questa Omelia, per raggiungere quel grado di gloria in Cielo che Dio ha stabilito per noi prima della creazione del mondo.

Guardiamo un attimo il lato positivo dei Comandamenti:

- i primi tre stabiliscono l'adorazione e l'onore dovuto a Dio, tanto privato quanto pubblico, nonché la Fede, la Speranza e la Carità verso di Lui;
- il quarto stabilisce l'onore per i Genitori e per i Superiori,
- il quinto (con le parole del Catechismo di Trento) ci ingiunge, anche, di estendere la nostra concordia e caritatevole amicizia verso i nemici per avere pace con tutti, sia pure affrontando con pazienza, ogni contrarietà;
- il sesto ci ingiunge alla purezza dell'amore, alla castità ed alla modestia;
- il settimo ci impone di essere benevoli e generosi verso il prossimo;
- gli ultimi tre, l'ottavo, il nono e il decimo ci insegnano di non parlare male del prossimo, di pregare per ciò che ci conviene di possedere, di apprezzare i nostri beni e di ringraziarne il Signore.

Per tenere i Comandamenti e per perfezionarci occorre la pratica delle virtù, soprattutto le virtù Cardinali della prudenza, della giustizia, della temperanza e fortezza;


occorre anche un lavoro assiduo contro le nostre imperfezioni di carattere o di abitudine:

forse siamo approssimativi nelle azioni e nelle nostre parole, siamo rozzi, maleducati un pò, indifferenti al prossimo, un pò liberi nelle parole, un pò maliziosi, aspri, amari, suscettibili, permalosi, distratti, disordinati, inaffidabili, inclini al risentimento, a pensieri contro la Carità, all'eccesso di tristezza, di ira, di paura o persino di gioia.

Questo lavoro sul nostro carattere, sulle nostre abitudini, anche quasi più del lavoro contro il peccato è il lavoro più difficile che ci sia, si chiama "il lavoro dei Santi", nelle parole di santa Teresina che provengono dalla Sacra Scrittura:

"il lavoro fra tutti più penoso è quello che si intraprende sopra se stessi per arrivare a vincersi".






Una parola sulla Preghiera.

Stiamo aspettando la Vita Eterna qua, dove vogliamo essere con Dio per sempre, ma se non pensiamo, se non parliamo, se non preghiamo mai a Lui, 

quale tipo di preparazione è questa per la Vita Eterna?

Una mezza Ave Maria mentre mi addormento non basta! 


Devo afferrare del tempo, la mattina e la sera, per la Preghiera anzi, devo provare a vivere sempre nella presenza di Dio con l'attenzione della mente, verso di Lui, 
che non dimentichi mai che Lui è il mio più grande Amico che occorre adorare, lodare, ringraziare, di cui occorre chiedere favori, a cui devo dare e dedicare tutta la mia vita.

Ho parlato del lato attivo della santificazione, ma c'è anche il lato passivo.

La vita, dopo la caduta, è dura, siamo qui per lavorare e soffrire, per portare la nostra croce dietro a Lui, e questa sofferenza ci santifica più di tutte le azioni che potremmo compiere. 


Lui ha dato la Sua vita per i suoi amici, cioè a noi, nella sofferenza, quella sofferenza che ha manifestato il Suo Amore, così anche noi dobbiamo dare la nostra vita a Lui, con tutta la nostra sofferenza, perché questa manifesterà anche il nostro amore. Ci saranno sempre sofferenze e difficoltà, ma queste possiamo accettarle per amore di Lui ed offrirglieLe come i nostri più preziosi tesori, uniti con le Sue sofferenze in Croce.

Per la Sua gloria, per la salvezza del mondo, e per la santificazione della nostra anima.

Amen.

In Nomine Patri, et Filii, et Spiritus Sancti.

Sia lodato Gesù Cristo +

da http://sansimonpiccolo.blogspot.it/

Predica 1 Novembre 2011 di padre Konrad per la Festa di Tutti i Santi

lunedì 9 gennaio 2017

L'eclissi del Bello

Che l'intelletto umano abbia immense potenzialità è senz'altro vero, come lo è anche, d'altro canto, il fatto che, per quanto profondi e capaci possiamo essere, non siamo intelligenze angeliche, ovvero non riusciamo a comprendere hic et nunc la totalità del mistero nè a godere pienamente dell'ineffabilità intelligente e caritatevole di Dio. Il quale, dall'alto della Sua bontà, ci ha forniti di mezzi e strumenti  che, sebbene non possano donarci gli occhi degli angeli, sono preziosissimi viatici per avvicinarci a Lui, annusarLo, intuirLo, percepirLo, conoscerLo, assaggiarLo anche da quaggiù, nella nostra pur imperfetta e limitata capacità di comprensione.

Saint Denis, Francia

 Il Bello e con lui la capacità umana,  precipuamente, esclusivamente umana, tra tutte le creature, di plasmarlo ed apprezzarlo è uno di questi. Ben lungi dal poter essere ascritto ad una mera categoria estetica o a balocco per raffinati addetti ai lavori, esso inerisce ad ogni uomo, dal più colto ed erudito, che di lui si è pasciuto in abbondanza ed ha imparato a decodificarlo, al più grezzo, nel senso etimologico del termine, ed inconsapevole, che, guarda caso, però, quando se lo trova davanti al naso, pur senza sapere nè il perchè nè il percome, per un attimo viene catapultato in una dimensione a lui forse poco nota, ma che risuona istintiva dentro l'anima, e da cui sgorgano stupore, gratitudine, desiderio.


San Donato, Arezzo

 Più di mille fiumi di parole, discorsi interminabili che pretendono, con ingenuità e superbia insieme, di costringere l'illimitato nel limite del piano puramente razionale, il Bello parla ed insegna, educa e nutre, aiutando misericordiosamente quindi, di conseguenza, a convertirsi ed a salvarsi.

Ma il nostro sciagurato evo, unitamente a grandissima parte della chiesa cattolica, tutto questo sembra proprio averlo voluto gettare alle ortiche. Sarebbe davvero troppo lungo spiegare i motivi di questa scelta suicida e non è questa la sede in cui affrontarne un'analisi esaustiva, ma ci pare doveroso quantomeno segnalare l'inquietante fenomeno, con la mai del tutto spenta speranza che un barlume di senno o un'afflato di carità verso noi povere pecorelle muova a compassione i pastori dei nostri giorni.    


 Proponiamo, a tal proposito, una riflessione pacata ma puntuale del vaticanista Aldo Maria Valli, comparsa qualche settimana fa sul suo blog "Duc in altum" e ci uniamo alle sue accorate domande.



In morte della bellezza

Chiesa Santa teresa Calcutta, Roma
Ogni volta che viene consacrata una nuova chiesa sono contento, perché Dio ha una nuova casa e le persone un luogo dove pregarlo. Se poi il luogo in cui la chiesa è consacrata è una periferia desolata, ancora meglio: in mezzo ai palazzoni-dormitorio, dove magari non c’è neanche una piazza per incontrarsi, la chiesa diventa un’isola di umanità e di speranza in un mare di grigiore reale ed esistenziale.Tra le periferie più desolate ci sono quelle romane, e dunque quando su «Roma sette», supplemento di «Avvenire», ho letto che a Ponte di Nona sarà presto consacrata una chiesa intitolata a Santa Teresa di Calcutta, ho pensato: che bello!
Poi purtroppo ho visto la foto.
Questa nuova chiesa, devo dire, non è brutta. È orrenda. E allora mi sono chiesto: perché? Voglio dire: perché una chiesa così orrenda? E perché le chiese nuove sono tutte immancabilmente orrende? Che cosa abbiamo fatto di male noi cattolici contemporanei per meritarci chiese che fanno letteralmente spavento? Quale colpa dobbiamo espiare?
Mi piacerebbe chiederlo ai vescovi e ai responsabili diocesani che si occupano di queste cose. Qui non posso pubblicare immagini, ma vi chiedo di andare a vedere in internet. Se cercate la nuova chiesa dedicata a Santa Teresa di Calcutta, a Ponte di Nona, a Roma (via Guido Fiorini, 12) la trovate subito. Purtroppo.

Penso che se avessero chiesto di disegnarla a un bambino di sei anni il risultato sarebbe stato di gran lunga migliore. Come definire questa presunta chiesa? Un magazzino? Un hangar? Un pezzo di fabbrica? Un bunker? Una casamatta?

Secondo l’architetto, del quale per carità non faccio il nome, vista di profilo la chiesa può contenere l’immagine di Madre Teresa in preghiera. Ci vuole una certa immaginazione. Il problema è che, di profilo o non di profilo, questo edificio resta orrendo. Quello che dovrebbe essere il campanile sembra una lunga zanna cariata, oppure una specie di torretta industriale, o una cabina elettrica non terminata. Quanto al corpo centrale, potrebbe sembrare la tribuna di uno stadio, ma una brutta tribuna di un brutto stadio.
E vogliamo parlare dell’interno? Un grande vuoto. Di una freddezza sconcertante. Penso che un deposito di frigoriferi, al confronto, trasmetta più calore.
Ora torno alla domanda di prima: perché? Perché le chiese di questi nostri tempi devono essere così orrende? Perché ci siamo condannati alla bruttezza estrema, senza speranza? Perché gli architetti ai quali vengono commissionate non sanno fare altro che tirare linee dritte come se fossero alle prese con il progetto d’un supermarket? Perché ignorano del tutto il bisogno di raccoglimento e di intimità spirituale? Perché non possiedono nemmeno una briciola di senso del sacro? Ma, soprattutto, perché le nostre diocesi si rivolgono proprio a questi architetti che sembrano ignorare tutto della vita della Chiesa? Perché, a dirla tutta, i nostri vescovi commissionano chiese a chi, con ogni evidenza, la Chiesa la odia? Possibile che non ci sia in giro un architetto dotato di un minino di pietà per i fedeli e di un minimo di amore per nostro Signore?



Chiesa di San paolo, Foligno


Mentre scrivo, mi viene in mente una possibile risposta. Forse è tutto un calcolo astuto. Siccome le liturgie, in queste nostre chiese di questi nostri tempi, sono spesso, a loro volta, orrende, ecco che i signori vescovi pensano: per liturgie orrende ci vogliono chiese orrende, è una questione di coerenza. Per liturgie sciatte, a base di schitarrate e canti sguaiati, con altoparlanti che ti sfondano i timpani, cori stonati, preti che pensano di essere a un talent show e fedeli che si comportano come se fossero al centro commerciale, è giusto mettere a disposizione chiese adeguate.
Non so se questo sottile ragionamento – che comunque è un’ipotesi – sia animato anche da un intento pedagogico, ma penso di no.

Probabilmente l’intento è soltanto punitivo.
Ma ecco che mi si propone un’altra risposta. E se fossimo davanti, ancora una volta, al vecchio complesso d’inferiorità che immancabilmente coglie molti nostri pastori? Se, semplicemente, facendo costruire queste chiese che sembrano magazzini, i nostri pastori pensassero di essere «moderni»? Probabilmente anche loro le considerano orrende, ma per non mostrarsi arretrati e inadeguati dicono che sono belle, innescando così un equivoco terribile e senza fine, a causa del quale gli architetti presentano progetti sempre più orrendi e i vescovi dicono che sono sempre più belli.
Il problema è che le vittime finali siamo noi poveri fedeli, costretti a frequentare luoghi di culto dai quali, se non fossero stati consacrati ufficialmente, staremmo certamente alla larga, tanto sono repellenti.
Basilica Sant'Antonio , Padova

Mi viene da sorridere, amaramente, pensando che noi contemporanei, capaci solo di sfornare chiese orribili e agghiaccianti, ricorriamo all’espressione «secoli bui» per parlare del medioevo, quando i nostri progenitori costruivano cattedrali meravigliose, capaci di indurre a pensieri di fede perfino gli atei più incalliti. Se quelli erano «secoli bui», i nostri che cosa sono? Una cosa è certa: le chiese nuove, al contrario delle cattedrali medievali, riescono a indurre pensieri di ateismo perfino nei cattolici più devoti.
Non so se ci avete fatto caso, ma nelle chiese nuove, in questi ambienti terribili che non sembrano case di Dio ma luoghi di punizione e perdizione, non si sa letteralmente dove guardare. Non avendo un’anima, non hanno un centro. Per trovare il tabernacolo, un visitatore può impiegare un bel po’, e magari alla fine non lo trova. Non c’è niente che conduca lo sguardo e lo spirito verso il cuore della chiesa. Tutto sembra pensato, piuttosto, per sviare e confondere. Tutto sembra pensato e progettato perché tra lo spazio di fuori, quello della quotidianità, e lo spazio di dentro, quello che dovrebbe essere lo spazio sacro, non ci sia alcuna differenza. Bruttezza fuori, bruttezza dentro. Anonimato fuori, anonimato dentro. Appiattimento fuori, appiattimento dentro.

Nostra Signora della Misericordia, Baranzate (Mi)

Ora, io so bene che il buon Dio non si fa problemi e abita tra noi ovunque. Ma perché noi non siamo più capaci di rendergli gloria? Perché facciamo di tutto per accoglierlo male? Perché i nostri pastori si ostinano a trovargli case così terribili, così inospitali, così fredde, quasi che, anziché invitarlo a entrare, lo volessero cacciar via?
Sento già la risposta: ma tu sei un vecchio conservatore e consideri brutto tutto ciò che è moderno e bello solo ciò che è antico!
Eh no, cari miei. Io sarò pure un vecchio conservatore, ma considero brutto ciò che è oggettivamente brutto, e rivendico il diritto di dirlo a voce alta. E forse, se ci mettessimo in tanti, a dirlo, qualcosa potrebbe cambiare.
Da Platone a san Tommaso, la bellezza è un attributo della verità e dunque di Dio. Noi invece inseguiamo la bruttezza. Perché? Solo stupidità? Solo sciatteria? No, senz’altro c’è di più. Immersi in un pensiero che prova odio per l’idea stessa di verità e considera inesistente il bene oggettivo, non possiamo far altro che consegnarci al brutto. È fatale. Ma che questo avvenga con il timbro dei pastori mi mette una grande tristezza.
Se è vero, come scrisse Dostoevskij, che la bellezza salverà il mondo, mi sa tanto che noi dobbiamo considerarci spacciati.

Aldo Maria Valli

San Giovanni, Val di Funes (Bz)